A CLASSIC HORROR STORY
Film (semi-originale Netflix) – Italia, durata 95’. Regia di Roberto De Feo, Paolo Strippoli. Scritto da Lucio Besana, Roberto De Feo, Paolo Strippoli. Con Matilda Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Cristina Donadio. Dal 14 luglio, su Netflix.
Tutto – prima e all’inizio – congiura a dare un’impressione di già visto. A partire dal titolo, esplicitissimo rimando ai canoni anglosassoni del genere. E te ne convinci quando vai ad esplorare di che parla: gruppetto di giovani in camper finisce fuori strada in mezzo a una foresta; unico appiglio: casa in mezzo a una radura. Se non sei più che dipendente dal cliché lasci perdere.
E sbagli. Perché invece A Classic Horror Story, dentro l’involucro del classico, cerca strade diverse, una rilettura dei canoni del genere.
Frattanto sposta nel Mediterraneo (in Calabria, addirittura!) le ambientazioni finora – con poche eccezioni – anglosassoni o statunitensi; e non è solo un trapianto geografico ed esteriore: col procedere del film, l’ambiente prende corpo, si popola di figure e di scene molto nostrane, le leggende attingono al nostro immaginario.
Addirittura emergono i nomi della trimurti criminale che alcuni pongono alle origini di tutte le mafie: Osso, Mastrosso e Carcagnosso; figure para-mitologiche, nomi più suggestivi che storici, ma che fanno gioco alla minaccia che satura l’atmosfera.
Efficace allo scopo anche il cameo di Cristina Donadio, volto dei nostri schermi estremamente iconico, sia in senso mediterraneo che per la sua dimestichezza (Gomorra) con l’orrore del reale.
Gino Paoli che canta Il cielo in una stanza sulle prime scene del film completa l’opera.
La scelta local – molto spinta da Netflix subentrata nella produzione del film -può in definitiva destare attenzione in un eventuale pubblico internazionale; contando poi di (sor)prendere noi italiani.
In quella foresta, da cui non si riesce a scappare, il manipolo di malcapitati (“capitati”?) assisterà e subirà nefandezze, ad opera di una misteriosa comunità. La mente va ad antecedenti disturbanti come lo svedese Midsommar o, risalendo parecchio nel tempo, il britannico The Wicker Man.
Eppure il film ci suggerisce che i veri mostri siamo noi. Come? Non si può dirvelo prima. Ma il messaggio è lanciato su più binari, che dicono attrazione morbosa, morte-spettacolo, “pornografia del dolore” (espressione usata da De Feo).
I registi De Feo e Strippoli non sono alla prima impresa; il primo anzi mise a segno, un paio d’anni fa, il pregevole The Nest (“Il nido”); anche lì sfuggendo ai facili cliché e fornendoci un ingrandimento spiazzante dell’apparente quiete borghese.
La protagonista di A Classic Horror Story è Matilda Lutz, bella faccia, occhioni da cerbiatta, che si mise in luce nel 2018 con il crudo Revenge, in cui prendevamo le sue parti qualunque cosa facesse.
Degli altri attori, riconoscerete Peppino Mazzotta, che nelle more di apprendere se la serie Montalbano e il suo bravo ispettore Fazio avranno un futuro senza Camilleri, cerca ovviamente nuove strade.
Si guarda con piacere, è guidato con mano sicura e produce buone forme; anche se non entra nella storia del cinema: l’intenzione di sovvertire i topoi delle premesse è lodevole, ma il cammino è ancora agli inizi: facendo macchina indietro e guardando la vicenda nel suo insieme, ci resta la sensazione che siamo ancora nel non aprite quella porta e c’è nessuno qui?
Ma si cerca un varco, e per giunta nell’ambito del cinema italiano, da tempo così refrattario ai generi, commedia esclusa. E questo fa ben sperare.
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