A volte i miracoli accadono. Accadono perché ci sono persone che li fanno accadere. Persone che hanno semplicemente scelto di afferrare una mano tesa e non lasciarla più. Persone che non hanno paura di amare né della fatica che l’amare richiede. Perché amare costa. Ma alla fine ciò che si guadagna annulla totalmente ciò che si è perso. Questa è la storia di un miracolo. Una storia che inizia con un post di facebook su uno dei tanti gruppi di quartiere di Roma.
Poche righe strazianti.
Una mamma ucraina cerca urgentemente una stanza per sé e per suo figlio di 12 anni affetto da un cancro terribile che richiede trattamenti di chemioterapia e medicamenti molto complicati. Non è lei a scrivere, ma una sua conoscente moldava. La mamma del bambino malato non parla italiano. Il post viene letto da una mia cara amica che mi gira immediatamente il drammatico appello affidato ai social e mi chiede se io possa fare qualcosa, come già in passato. Così, mando un messaggio all’autrice del post chiedendo di essere contattato. Attendo pazientemente ma non ricevo risposta: è notte fonda, immagino la signora stia dormendo. Di buon mattino la ricontatto e questa volta risponde.
Le lascio il mio numero di cellulare e poco dopo ecco il telefono squillare. Si chiama Veronica, parla perfettamente italiano e insegna francese nelle scuole. Mi racconta brevemente la storia di Olexii, così si chiama il bambino, e di sua madre Viktoria.
Olexii ha 12 anni, è affetto da rabdomiosarcoma pelvico. Ha già subito un’operazione complicata, ha bisogno di medicamenti complicati e cure regolari. Non sto qui a raccontare le peripezie che lo hanno portato dall’Ucraina in Polonia e dalla Polonia a Roma dove è stato preso in cura dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
Sono viaggi, questi, che nessuno di noi può neanche lontanamente immaginare, sofferenze, privazioni, umiliazioni, che si apprendono solo quando ci si trova di fronte a richieste di aiuto come queste. Sta di fatto che Olexii e la mamma sono in un centro SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) di Marino, ai Castelli romani. Le condizioni di vita là dentro sono impossibili: il bambino, dopo l’operazione che lo ha privato della vescica e parte del retto, si infetta in continuazione, la madre è disperata, nessuno li aiuta.
Così Viktoria prende poche cose e scappa da un’amica lasciando nel centro di accoglienza gran parte dei presidi sanitari necessari per le cure del figlio e molte delle sue cose. Ma è una situazione temporanea. In più c’è un altro, enorme problema: di lì a due giorni un funzionario dello sportello unico accoglienza migranti le chiederà se vuole rimanere al SAI o no. Nel caso voglia andarsene, potrebbe perdere ogni aiuto e la possibilità di avere un alloggio. Situazione delicatissima, dunque.
C’è pochissimo tempo per trovare una soluzione. Veronica mi invita a telefonare a Viktoria. È ospite da Tatiana, un’amica ucraina che parla perfettamente italiano e fa da intermediaria. Comincia un fitto scambio di telefonate e messaggi tra me e Tatiana che mi permette di capire meglio la situazione. Inoltre, per avere maggiore aiuto, contatto Vira, la mia amica ucraina con la quale già abbiamo fatto squadra quando si è trattato di fare nascere Jaroslaw a Roma, trasferendo la famiglia e la mamma incinta con un viaggio rocambolesco durante il quale il bambino ha rischiato di venire al mondo in un bus.
E poi con lei abbiamo strappato Arsen, diciottenne ragazzo ucraino, al fronte in Donbas per portarlo in Ematologia al Policlinico Umberto I, dove lavoro, e curarlo per un linfoma. Alla squadra si unisce proprio Arsen che da vicino Leopoli mi traduce in tempo reale le frasi che Viktoria mi scrive in ucraino. Dunque, la squadra è fatta e pronta al tutto per tutto. La speranza di arrivare a una soluzione si fa ogni minuto più forte. Cerco aiuto “in casa”, ma la residenza Vanessa della ROMAIL è destinata ai pazienti ematologici e per Olexii e sua madre non c’è alcuna possibilità di accoglienza.
Stilo così una lista di strutture alle quali telefono senza indugio. Apprendo così che nella maggioranza dei casi non si accettano richieste telefoniche di alloggio, ma bisogna essere inseriti in un protocollo attraverso il quale si stabilisce una graduatoria di urgenza. Non c’è tempo per i protocolli.
Cerco disperatamente di puntare su strutture religiose, tipo congregazioni di suore, ma ricevo poche, laconiche parole di risposta: siamo pieni. Dopo diversi tentativi infruttuosi, mi viene l’idea di ricorrere anch’io ai social. Ottenuto il permesso da Viktoria, scrivo un post su facebook in cui chiedo aiuto e consiglio al popolo del web. Di lì a poco vengo subissato di decine e decine di messaggi ai quali quasi non riesco a tenere dietro. È notte fonda quando finalmente ho in mano una nuova lista di persone, istituti, Onlus cui chiedere aiuto. Mi avvicino con l’animo pieno di speranza al letto e spengo la luce.
Non immagino che mentre mi lascio vincere dal sonno, c’è qualcuno che è ancora sveglio e sta leggendo il mio post, pronto a mandarmi un messaggio che cambierà le cose totalmente, l’indomani.
Margherita, una mamma che ha perso una giovane figlia, Elisa, per una patologia ematologica e ha trasformato il dolore in amore verso gli altri tramite una associazione che porta il nome della figlia.
Eccomi di buon mattino con la lista in mano. Non ho ancora visto il messaggio risolutore, ma devo risolvere la questione fondamentale della possibilità di perdita dell’assistenza sanitaria legata alla rinuncia dell’alloggio assegnato dallo sportello migranti a favore di una nuova struttura. Mi sembra assurdo, ma devo verificare.
Telefono allo sportello sapendo già che sarà difficile se non impossibile trovare un interlocutore cui chiede lumi. E invece il giovane operatore che mi risponde non solo è gentilissimo, ma mi rassicura con argomentazioni ineccepibili che la cosa non può accadere. Non solo. Per mia maggiore tranquillità mi farà richiamare dalla collega che è impegnata in una riunione e che si è proprio occupata personalmente della questione. Di lì a poco squilla il cellulare: è proprio la collega.
Anche lei estremamente gentile, mi illustra nei dettagli il percorso intrapreso per trovare una sistemazione a Olexii e conferma ciò che mi ha detto il primo operatore. Non solo; mi lascia il suo cellulare per qualsiasi necessità invitandomi a contattarla senza problemi anche per altre problematiche nelle quali potrei imbattermi in futuro. Sono veramente colpito.
Ma ora devo correre, il tempo stringe. È in quel preciso momento che mi accorgo del messaggio di Margherita, la mamma di Elisa. Poche parole, un contatto. Si tratta di Benilde, la Presidente dell’AGOP, Associazione Genitori Oncologia Pediatrica Onlus che si appoggia all’ospedale Gemelli. La chiamo, ho la voce roca per quanto ho parlato, quasi non riesco a raccontare la vicenda, non so da che parte cominciare. Lei mi interrompe subito. “Li prendiamo noi”, stia tranquillo.
Glielo faccio ripetere due volte perché penso di aver frainteso. Lei ripete. Non ho capito male: la ricerca spasmodica è finita. Comincia un fitto scambio di telefonate con Benilde per i dettagli. Poi tra me, Viktoria e Tatiana. Tra me e Vira. Tra Vira e Viktoria. Tra me e Veronica che mi chiama disperatamente tra una lezione di francese e l’altra. Tra una e l’altra comunicazione riesco anche a prendere appuntamento con il centro migranti di Marino per aiutare Viktoria nel trasporto delle loro cose nella nuova casa.
Ci sono continui cambiamenti relativi alla tempistica che non sto a raccontare. La sistemazione sarà disponibile da lunedì. Fino a lunedì mattina, Viktoria e Olexii saranno ospitati da un istituto religioso di suore, poi si trasferiranno nella sede definitiva. È sera che ancora sistemiamo i dettagli e organizziamo gli incastri dei movimenti vari che porteranno alla conclusione della vicenda.
Sono stremato. Nella notte arriva, inaspettato, uno dei miei attacchi epici di colite. Non chiudo occhio. L’alba mi sorprende che sorseggio l’ennesima camomilla. Non ci voleva. Non ci voleva proprio. Recluto mio figlio e, insieme, andiamo al centro migranti di Marino. Anche Tatiana e Viktoria con Olexii sono in macchina. Speriamo che ci sia spazio sufficiente per portare via tutto. Vira è in collegamento telefonico con me e Viktoria e dà le notizie su traffico e ritardi. La nostra squadra è meglio di Isoradio.
Arriviamo che fa un caldo boia. Le operatrici ci conducono nella stanza, più che stanza un loculo di tre metri per tre. Entro e mi guardo intorno. Una finestra con vetri rotti. Un minuscolo bagno. Odore di muffa. E una montagna di scatole. Approntiamo una catena umana e carichiamo la macchina fino all’inverosimile. Nel frattempo arrivano Viktoria, il piccolo Olexii e Tatiana.
Olexii è un bellissimo bambino con meravigliosi capelli che con piccole volute si appoggiano al collo. La lunga camicia nasconde i vari apparecchi che gli permettono di espletare le normali funzioni fisiologiche. Dopo i dovuti convenevoli, io e mio figlio ripartiamo. Viktoria e Tatiana ci raggiungeranno non appena caricate le macchine. La destinazione è proprio il Centro Trasfusionale dove lavoro. C’è una grande stanza vuota che per qualche giorno può fingere da deposito finché mamma e figlio non si saranno sistemate nella nuova casa.
Il Direttore mi aveva già dato l’ok senza alcuna esitazione il giorno prima. Arriviamo e scarichiamo con il fondamentale aiuto del mio collega Claudio che fa la spola tra il garage e la stanza-deposito. Poi arrivano Viktoria e Tatiana e facciamo la stessa cosa. Io mi sento sempre peggio, non vedo l’ora di tornare a casa. Ci salutiamo e ci diamo appuntamento per lunedì. Ed eccomi a casa. Sto per crollare, mi sento debolissimo. Ho la febbre alta e dolori molto forti all’addome. Ma ce l’ho fatta. Ce l’abbiamo fatta. Ora devo solo guarire in fretta.
Lunedì si apriranno le porte della nuova vita di Viktoria e Olexii. E io sarò là ad assicurarmi che tutto vada bene. Ma nel frattempo ringrazio Veronica, Margherita, Benilde, Vira, Tatiana, mio figlio Paolo, Claudio, gli operatori dello Sportello Unico Migranti e il Prof. Pavan. Senza di loro, il miracolo non si sarebbe realizzato. Ora posso finalmente riposare. Sperando che la Tachipirina faccia il suo dovere.
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