Addio a Giampiero Rubei, un mix tra Tolkien e Charlie Parker
“Tutto è partito– raccontò –dall’intuizione di ritrovare nel jazz la stessa carica di libertà e creatività di Tolkien”
Quando, nel 1997, ho collaborato a un programma televisivo della Rai che doveva raccontare e spiegare cos’era successo in Italia nel 1977, andai convinto a intervistare, tra gli altri, Giampiero Rubei, lo straordinario personaggio che ci ha lasciato a Roma ieri mattina. Proprio nel ’77, infatti, si era determinata una “rottura” generazionale, anche se non sempre consapevole, nell’immaginario della società italiana secondo cui, sia a sinistra che a destra, nel mondo giovanile si scopriva un nuovo modo di comunicare e partecipare al proprio tempo. E Giampiero Rubei, pur se da una prospettiva difficile e non allora maggioritaria, ne era stato tra i protagonisti, per quanto improvvisati e un tantino inconsapevoli. E il cui lavorio e impegno sarà destinato a durare nel tempo.
Come ha spiegato il compianto Renato Nicolini, “alcuni fenomeni di quell’anno stavano indicando nuovi modelli di comunicazione politica”. E in effetti l’elemento unificante dei fermenti che trovarono manifestazione in tante cose del ’77 stava probabilmente in un fattore sociologico: la crescita e la consapevolezza sociale di un nuovo ceto medio creativo. E sarà infatti sul filo dell’esperienza esistenziale e della comunicazione che si giocò la novità dei fenomeni emersi in quell’anno e che segneranno nei decenni successivi i nuovi luoghi e i nuovi linguaggi della società italiana. Era la cosiddetta metapolitica, il privilegiare l’immaginario, le idee, la mentalità rispetto a una politica intesa solo come elezioni e acquisizione di spazi di potere. Tra cui, appunto tutto ciò che sperimentò da allora in avanti Giampiero Rubei…
Classe 1940, romano di Roma, cresciuta tra Monteverde e i Palazzi di Donna Olimpia, Giampiero è un bel ragazzone dai tratti da antico legionario, che in loden e Ray-ban frequenta attivamente la destra creativa dell’epoca, quella che si riconosce nel circolo intellettuale di via degli Scipioni, che frequenta il pensatore tradizionalista Julius Evola, che nel 1968, comunque, sta con gli studenti di Valle Giulia nella celebre battaglia contro gli sbirri… Sì, Giampiero era uno di quelli che – sampietrini alla mano – affronta e sfida la repressione dei poliziotti e che consentirà al cantautore Paolo Pietrangeli di celebrare il giorno in cui “non siam scappati più…” Un “fascio” eretico e curioso, più un “fascista immaginario” che un destrorso, appassionato alla lettura di Céline e Jünger, che agli attivisti duri e puri preferisce la frequentazione degli irregolari. Tanto che si schiererà col centro studi di Pino Rauti e aderirà al Msi solo nel 1969 con l’adesione di quel gruppo al presunto processo di rinnovamento ventilato dal nuovo segretario Giorgio Almirante.
Coerentemente Rubei diverrà segretario della sezione romana di Monteverde in quei primi anni Settanta fatti di scontri, equivoci, sangue e lutti… Esilaranti gli aneddoti che raccontava su quel periodo, quando Giampiero insieme agli amici Carlo Carocci, professore di scuola da poco anche lui scomparso, e Virgilio Ilari, oggi accademico di vaglia e uno dei massimi studiosi italiani di geopolitica e storia militare, andavano di notte ad attaccare i manifesti senza dirlo alle rispettive mogli. Come quella volta che per quella affissione si tolsero le scarpe per montare uno sull’altro, e a manifesti attaccati non trovarono più le scarpe e dovettero tornare a casa scalzi subendo i rimbrotti delle consorti…
Bene, proprio nel ’77 Giampiero – che nel frattempo era stato anche il custode dell’ultimo respiro di Evola e l’esecutore testamentario delle volontà del maestro – fu tra gli ideatori e organizzatori del Campo Hobbit, una due giorni di happening dei ragazzi di destra all’insegna non degli slogan e della militanza ma del nuovo modo di essere dei giovani: la grafica, i fumetti, le radio libere, la poesia, l’ecologia, l’alimentazione, i gruppi musicali, i cantautori, in una parola… la creatività. Era l’anno in cui lo hobbit Frodo Baggins diventava il simbolo di una nuova destra giovanile. Nascevano circoli culturali dai nomi tolkieniani, veniva fondata l’associazione La Terra di Mezzo, si inaugurava la rivista d’impegno femminile Eowin…
E si imponeva, anche a destra, un nuovo modo di vivere e praticare l’impegno, oltre i cortei militarizzati, gli slogan e i comizi. Non a caso lo scrittore di sinistra Piero Meldini arriverà a scrivere solo un anno dopo: “Poniamo che qualcuno di noi abbia uno spiccato interesse per la letteratura fantastica. Che farà? La tratterà come una perversione da coltivare in gran segreto o si iscriverà, per amore di coerenza, al Fronte della Gioventù?”.
Giampiero Rubei non si fermerà, comunque. E tre anni dopo realizzerà – insieme a Teodoro Buontempo e Umberto Croppi – il terzo Campo Hobbit, il culmine di un tragitto e di un processo di consapevolezza politica, culturale e, per lui e qualcun altro, anche professionale. Dopo una serie di esperimenti – una manifestazione musicale nel 1982 con le band di tutte le scuole medie superiori romane, qualche concerto musicale – Rubei punta tutto sulla creazione e affermazione di un locale, l’Alexanderplatz di via Ostia, nel quartiere Trionfale, che in breve si affermerà come il migliore jazz club italiano. E a poco a poco, proprio nel jazz, Giampiero troverà la sua vera vocazione umana, metapolitica e professionale. “Nel jazz – ha spiegato una volta – c’è il linguaggio adrenalinico del Novecento, la vitalità dell’improvvisazione, la forza dell’elementare…”.
Quel locale diverrà un punto di ritrovo fisso per gente come Chet Baker, per lo scrittore beat Gregory Corso, verrà frequentato da Fausto Bertinotti, da Renzo Arbore, da Nanda Pivano, da Giancarlo Governi, dallo scrittore Filippo La Porta, dal compianto Gianni Borgna. E negli anni Novanta Rubei darà vita a uno dei più importanti festival italiani di musica e sonorità afro-americane: Jazz & Image a Villa Celimontana. Qui si esibiranno i maggiori musicisti sul piano internazionale, da Michel Petrucciani a Wynton Marsalis, da Dionne Worwick a Burt Bacharach, da Sarah Jane Morris a Luis Bacalov. E da Rubei si faranno conoscere italiani come Stefano Di Battista e Ada Montellanico ma anche, gli argentini, Aires Tango. E arriveranno i riconoscimenti da oltre Oceano: Downbeat, la prestigiosa rivista internazionale di jazz, arriverà a celebrarlo in prima pagina con tanto di foto a cinque colonne, coronando così un lungo percorso di una passione autentica. Nel jazz Rubei aveva ritrovato – e individuato – la declinazione creativa di tutto quanto aveva assorbito negli anni dalle sue letture, dalle sue passioni, dal “suo” Sessantotto, da Evola, da Kerouac, da Céline.
Ma tutto il suo percorso venne sempre pensato come coerente e intrecciato. Tanto che nel 1998 a Roma, nel corso di Villa Celimontana, Rubei fece esordire Hobbit/Hobbit, un’opera jazz ispirata al Signore degli Anelli: “Tutto è partito – raccontò – dalla mia intuizione di ritrovare nel jazz la stessa carica di libertà e la stessa creatività del mondo tolkieniano”. E allo stesso modo, nel 2000 e nel 2005 Rubei fece rappresentare, sempre a Villa Celimontana, due lavori teatrali e musicali, ispirati uno a Ezra Pound e l’altro a Céline e realizzati con il contributo del suo amico, jazzista oltre che scrittore, Filippo La Porta.
Personalmente vorrei ricordare la volta – era il 1996 – che Giampiero mi telefonò per propormi di condurre una trasmissione radiofonica quotidiana in Rai insieme a un mostro sacro della critica musicale quale Peppe Caporale. “Giampiero”, gli dissi imbarazzato, “ma non sono un esperto di jazz…”. La sua risposta racconta tutto il suo personaggio: “Ma che te frega, Lucià, sei un giornalista, sai parlare, sai improvvisare… E quindi il jazz lo hai già capito… Poi, prenditi qualche libro e studia. Piuttosto – e concluse – va’ a firmare, che poi è tardi…” Grazie, Giampiero, te ne sarò sempre grato.