Parabiago, stazione ferroviaria, 20 novembre. Abdul El Essaidi, 15 anni, figlio di un muratore e di una casalinga immigrati dal Marocco, cammina sui binari per prendere un accendino che gli ha lanciato un amico: “Vediamo se sai raccoglierlo”. Un treno sta arrivando di fronte. Abdul valuta la distanza, corre il rischio. Cammina su un binario parallelo. Alle sue spalle, il regionale diretto a Domodossola, piomba su di lui e lo dilania, nonostante il tentativo di frenata del macchinista. Morto sul colpo. L’amico corre in preda al terrore. Troppo tardi. Dopo cercherà di ammazzarsi con una pistola di uno dei poliziotti giunti sul luogo della tragedia. Lo portano via in preda allo shock. Una famiglia tranquilla, ben voluta da tutti, è distrutta dal dolore. Una comunità, quella di San Giorgio su Legnano, dove Abdul era conosciuto, s’interroga sul perché di questa morte assurda.
Perché sempre più spesso assistiamo a incidenti senza nessuna logica, dove un adolescente muore per correre un rischio, per gioco, per sfida, per farsi una foto o farsi riprendere dagli amici col cellulare? “Se posto il video o la foto dove si vede che ho sfidato la morte, gli altri mi cliccano i likes e io valgo” Mi racconta uno di loro che preferisce restare anonimo. Queste gesta avvengono all’oscuro dei genitori e dei parenti. Tra amici, più o meno della stessa età. Gli adolescenti vivono in comitiva, in compagnie che nascono dalla scuola, dal quartiere, dal condominio. Vogliono sentirsi già grandi, imitano i fratelli maggiori, vogliono bruciare le tappe. Le sfide sono più affascinanti dello studio, della scuola, della tv. Sono tante e tutte diverse oramai, ma ognuna ti procura una scarica di adrenalina che ti fa sentire vivo, che ti gratifica come nient’altro.
La sfida del treno, che è costata la vita ad Abdul, viene ripetuta anche con le auto sulle strade. Un ragazzo si sdraia sull’asfalto, e quando i fari di un’auto che sopraggiunge lo illuminano, si alza di scatto per mettersi in salvo. In quell’attimo viene fotografato per immortalare le sue folli gesta e mostrarsi grande con gli amici. Oppure si percorre a piedi una rotatoria al contrario, per poi saltare sul tettuccio dell’auto che si incrocia. Inconsapevole, mi immagino il volto dell’automobilista.
Parkour. È una disciplina urbana, nata in Francia agli inizi dei ’90. Si corre su un percorso cittadino, superando qualsiasi ostacolo, con la maggior rapidità possibile e con movimenti agili e apparentemente semplici. Si scavalcano muri, siepi, scalinate, ci si arrampica come gatti e si fanno capriole ma sempre restando in equilibrio e aderenti al terreno. Chi corre si chiama “tracciatore”, il suo è un percorso (percours) non di guerra, ma di spostamento (art du deplacement). Sono belli a vedersi, leggeri, funambolici. Credo sia il massimo per dei ladri d’appartamento, per sgattaiolare via o per saltare agevolmente sui balconi delle case da derubare. Nessuna guardia potrebbe inseguirli, a meno che si addestrasse un corpo speciale in tal senso.
Urban climbing. Scalare i grattacieli, camminare sui cornicioni o sulle impalcature dei palazzi in costruzione, facendosi fotografare o scattando un selfie mentre si resta in bilico a 250 metri d’altezza. Chi lo fa non soffre di vertigini ma anche il più minimo errore o distrazione, a quel livello, non perdona. C’è chi ama esibirsi in esercizi di fitness o mettersi a testa in giù, per farsi scattare una foto col panorama della città sottostante o con l’immagine spaventosa delle auto che corrono sotto di sé sulle strade. In qualche caso si sale sulla benna di una gru altissima e ci si fotografa abbracciati, dandosi un bacio tra fidanzati, sospesi sul vuoto, con la città ai propri piedi.
Ghost riding. Abbandonare lo sterzo dell’auto a folle velocità. Con il rischio serio di fare del male anche ad altre persone innocenti.
Eyeballing. Versare della vodka negli occhi di un amico o nei propri, per provocare una vertigine.
Balconing. Gettarsi da un balcone di un hotel direttamente nella piscina. Alcune morti, avvenute durante le vacanze, nelle isole Baleari, tra ragazzi di 15 e 18 anni, fino a un tedesco di 23, che alloggiavano in hotel e le cui dinamiche non sono state del tutto chiarite, fanno pensare a questo tipo di pratica.
Chocking game. Letteralmente provocarsi paura, con un principio di strangolamento. Un giovane di 15 anni Igor Maj, è morto a Milano nel tentativo di provare questa esperienza, stringendosi attorno al collo una corda da scalata. Lui era un giovanissimo campione di free climbing, amava il rischio. Ora la polizia teme che vi siano siti o video nei quali questa pratica venga mostrata e diffusa per provare, con lo svenimento e il risveglio, l’ebbrezza della quasi morte. Ma Igor non si è risvegliato. La sua vita spericolata è durata troppo poco per accettare il diritto di gettarla via in questa maniera. Certamente i social network hanno agevolato la circolazione di queste pratiche e di queste “mode” o “giochi”, se vogliamo dare questo epiteto ad azioni che tolgono la vita a giovani adolescenti, troppo ansiosi di provare emozioni. Più avanti parleremo di giochi e trasmissioni che circolano sulla rete o sui video come “Blue Whale” e “Jackass”, che mostrano ambienti irreali e attori provocatori, “schizzati” oltre ogni limite del buon senso.
Car surfing o Train surfing. Fare surf sul tetto di un’auto o sulla carrozza di un treno, lanciati in velocità come si stesse sulle onde del mare. Solo che quando cadi da lì, per un ostacolo improvviso, o per aver toccato l’alta tensione, la morte è sicura. In qualche caso viene sostituito con il restare aggrappati all’ultimo vagone del treno o mettersi tra due vagoni, per saltare giù prima della frenata del convoglio per non restare schiacciati. Un quindicenne, a San Paolo, in Brasile, per emulare il personaggio di un video gioco, è saltato da un vagone a un altro, su un treno in corsa. È scivolato sui binari e il treno gli ha strappato di netto un braccio e una gamba. In qualche caso questa stupida follia tocca anche adulti non cresciuti mentalmente. Ricordo un video (ancora visibile su Youtube) di una bella ragazza russa, che si sporgeva nuda, fuori dal finestrino della vettura, mentre l’amica la riprendeva con il cellulare. Le due donne erano molto divertite da questa prodezza ma a un certo momento si vede l’impatto terribile della testa della donna, contro un palo al ciglio della carreggiata: uccisa sul colpo. Aveva un figlio piccolo. Un altro caso ha visto la morte di un giovane di 19 anni che, a Parigi, cercava di fare train surfing sul tetto della metropolitana. Era salito alla stazione di Bir – Hakeim, il treno è partito verso Passy, dall’altra parte della Senna, ma l’uscita dalla stazione è bassa e il ragazzo non aveva spazio per sfuggire all’ impatto mortale con la galleria, quando il convoglio ha preso velocità. In Russia un ragazzo di 15 anni è rimasto folgorato da una scarica di 10.000 volts, quando sul tetto del locomotore, ha urtato i fili dell’alta tensione.
“Pura adrenalina, è per questo che lo faccio“, dice Fub Mad, 20 anni, torinese per spiegare i quattro minuti di follia attaccato alle lamiere di un treno in corsa. (la Repubblica 27 maggio 2018). Si presenta col nome d’arte, perché si sente tale, e così si fa chiamare nell’ambiente dei climbers. Quel suo folle gesto ha creato infatti una interruzione sulla linea Susa – Torino che gli è costata cara. La “Polfer” l’ha beccato affibbiandogli una multa da 550 € più una denuncia per interruzione di servizio pubblico “Non sono cose che puoi fare se non hai il giusto allenamento e la giusta preparazione. È come l’urban climbing sui grattacieli o sulle vecchie fabbriche. Serve tecnica, allenamento e testa sul collo” dice agli intervistatori di “Repubblica” il nostro eroe. Se la sua testa fosse veramente sul collo, tuttavia, impiegherebbe in altro modo queste sue qualità, mettendole magari al servizio della comunità, nel corpo dei “vigili del fuoco” o come volontario nella “protezione civile”, per salvare delle vite e non per far correre un’inutile rischio alla sua. “A mia mamma ho detto della multa ma non della denuncia — ammette — Non la prenderebbe bene“. Non stentiamo a crederlo. Infatti questo è il punto. Che i genitori di questi “funamboli in fasce” siano all’oscuro di tutto è evidente. Probabilmente sono anch’essi vittime di questa realtà quotidiana che ti succhia via il tempo, per guadagnare quello che appena ti basta per sopravvivere, senza darti la possibilità di poter contare su scampoli di ore, per interagire con le persone che ami. Non me la sento di dare la colpa ai genitori. Anche se fino alla maggiore età del funambolo è loro la responsabilità per le sue gesta. Le bravate sono ben visibili, se solo le si vuole conoscere, su Instagram e sugli altri social network. Perché a nulla varrebbe compierle senza un pubblico di ammiratori e di fans che faccia gongolare i nostri protagonisti.
Pare che il train surfing sia nato a Soweto, un sobborgo di Johannesburg, in Sud Africa, negli anni’50 tra gli adolescenti poveri delle baraccopoli. Lo cita Olivia Widmon nella rivista “White Father Africa”. “I train surfer sono soprattutto adolescenti dei quartieri poveri, spesso imbottiti di alcol e droga, che si arrampicano sulle carrozze ferroviarie, schivano pali e cavi dell’alta tensione, si fanno trascinare a tutta velocità aggrappati ai finestrini, saltano dai treni in corsa. Per vincere la noia. Per mostrare coraggio e spavalderia.” Dopo molte decine d’anni i train surfer sono tornati a morire a Johannesburg, sempre per sfuggire alla noia, alla frustrazione che prende una generazione schiacciata tra disoccupazione e mancanza di prospettive. Il fotografo James Oatway ha fotografato molti di questi incidenti, in un reportage intitolato Train surfing Soweto, che mostra anche gli esiti dolorosi: i corpi carbonizzati dall’alta tensione o spiaccicati lungo le rotaie. Anche la regista sudafricana Sara Blecher ha realizzato il documentario pluripremiato Surfing Soweto, che racconta la storia di tre ragazzi senza famiglia, con problemi di droga, alcol e povertà e la loro vita giocata sul filo del pericolo estremo.
Queste sfide mi fanno pensare alle prove che deve superare l’affiliato, per entrare nella banda di teppistelli del quartiere. In genere sono parametrate al livello della banda. All’adolescente può venire richiesto di superare una prova fisica di coraggio ma anche di ammazzare un barbone dandogli fuoco, è successo a Natale 2016 a Berlino, 7 giovanissimi fra i 15 e i 21 anni danno fuoco a un senzatetto che dormiva nella stazione della metropolitana. Nel novembre del 2017 succede ad Avellino, ai giardinetti, che due ragazzi danno fuoco a un ucraino che dormiva su una panchina. Altri due italiani lo fanno a Monaco di Baviera per farsi un selfie. Per fortuna la polizia salva in tempo il malcapitato. Un barbone è una vittima ideale, nessuno lo difende, è come un animale randagio. Del resto sparare a un animale per ucciderlo è un’altra prova. Come nell’organizzazione criminale, si chiede di uccidere una persona qualsiasi, da distanza, solo per mostrare che non si viene sopraffatti dall’emozione o dal sentimento di pietà. Sono le prove disumanizzanti, quelle che ti fanno cambiare status, da bambino a uomo. Secondo queste logiche. Purtroppo non si cresce si diventa solo ciechi e spietati. Queste sfide mostrano solo la stupidità di chi le concepisce. Servono a togliere la capacità critica di una persona già debole, che non sa ribellarsi al senso di distruzione e di morte, che non sa fare scelte positive, di vita e di solidarietà. Non c’è niente di coraggioso nell’uccidere un animale o un barbone o nello sparare a una persona sconosciuta. Così come non c’è nessun valore nel rischiare la propria vita per scattarsi una foto e farsi belli con gli amici. Il coraggio si dimostra in altre maniere, anche meno appariscenti, non certo con gesta così cretine, inutili e aberranti.
Da dove traggono ispirazione questi ragazzi, per fare quello che fanno? Dalla rete, dal cinema, dalla tv. Attenzione a non fare deduzioni sciocche. Da sempre si accusano i mass media per le scelte individuali. Se questo teorema fosse vero bisognerebbe spiegare perché su una grande maggioranza di utenti, solo poche decine di migliaia sono i seguaci delle trasmissioni e poche centinaia, o ancora meno, le vittime. Ognuno ha gli strumenti per comprendere le comunicazioni che arrivano dall’esterno, siano esse provenienti dagli amici, dai parenti o dai mass media. Ognuno interagisce con la realtà attraverso le proprie sensazioni, i sentimenti, la cultura, con la propria intelligenza. Se qualcuno giunge a farsi del male la colpa non è del mezzo ma del concorso di situazioni che si sono verificate e in primis del soggetto stesso. Ciò detto veniamo ad analizzare il fenomeno “Blue Whale” ovvero il gioco della balena blu, che avrebbe indotto al suicidio 157 giovani, fra quanti vi hanno “partecipato”. Il gioco nasce in Russia ma è tutt’ora avvolto in una nube di mistero e non è escluso che si tratti anche di fake news (menzogne o tutt’al più fantasie). Nel febbraio del 2017 comincia a circolare su Internet questo nome.
Il meccanismo sembra banale. Si opera sul social network russo “Vkontakte”attraverso il tag #f57, in seguito un misterioso “administrator” si mette in contatto col giocatore e con una più o meno larvata minaccia, lo costringe a fare determinati passi su sua indicazione. In base a quali argomenti riesca a indurre il giocatore ad obbedire non lo so, ma forse è stato proprio il giocatore a fornire i dati necessari alla gestione della sua persona. Un po’ come accade con gli utenti di Google e Facebook, per gli avvisi pubblicitari. Gli step successivi, circa 50, dovrebbero indurre il giocatore a fare una serie di passaggi che terminano con il suo suicidio. L’uso di obblighi che rappresentano un crescendo di violenza contro sé stessi, quali farsi delle ferite ai polsi vicino alle vene, guardare video psichedelici, incidersi una balena sul braccio, dovrebbero indurre la vittima a perdere la sua capacità critica e abbassare le sue difese. L’ultimo passaggio potrebbe proprio essere un balconing o un parkour, saltando da un palazzo. Se n’è occupato Giovanni Ziccardi, docente di Informatica giuridica all’Università degli Studi di Milano. Il quale rimane molto scettico sulla veridicità del gioco, anche se alcune prove paiono inconfutabili, come l’esistenza di Philipp Budelkin, giovane russo, studente di psicologia, che sembra essere l’ideatore di “Blue Whale”. In seguito all’accertamento di 16 morti, che parrebbero legate al gioco, Budelkin è stato arrestato.
La Polizia ha messo in guardia i genitori che controllino l’attività in rete dei propri figli e soprattutto che evitino i siti che abbiano come riferimento la balena blu o il social network russo, anche nella sua versione inglese, non in cirillico (vk.com/club200) al fine di non correre rischi. Soprattutto quello di mettere i ragazzi contro le proprie famiglie, affinché fuggano da casa di notte. Cosa non difficile trattandosi di adolescenti. Siccome però la rete tende ad amplificare ogni fenomeno, bisogna muoversi con circospezione, senza demonizzare nessuno, per non rischiare di fare in questa maniera il gioco del nemico, ovverosia creare una spaccatura tra figli e genitori. È il solito vecchio problema. Mi pare di leggere le polemiche di 50 anni fa, che dividevano i figli capelloni desiderosi di fuggire a San Francisco per vivere da hippies, dai genitori benpensanti e conservatori, che non ne capivano le esigenze di libertà e gli ideali di solidarietà. Oggi questo sogno solidale è sparito, ucciso da tante disillusioni, resta però l’ansia di crescere e di separarsi da chi ci protegge e ci ricorda che siamo figli. Soprattutto dopo gli anni ’70 sono venuti gli anni del punk, Sid Vicious ma anche i Nirvana e le sette sataniche. In tutti questi fenomeni, la carica adolescenziale di conflitto con i genitori viene amplificata e ne rappresentava sempre la base indispensabile.
La tv è stata via via nel tempo abbandonata dai giovani. Nonostante questo ha avuto, nel recente passato, programmi e linguaggi dedicati agli adolescenti, in particolare su alcuni canali tematici, specifici per questo target. MTV per esempio ha trasmesso negli Stati Uniti, tra il 2000 e il 2002 il programma “Jackass”, che in italiano potrebbe essere tradotto come “asino” o “somaro”. Un gruppo di personaggi sopra le righe, soprattutto “stuntman”, si sottoponevano a una serie di prove di coraggio (o di follia) pericolose e anche assurde, per non dire ridicole. Il programma è stato poi messo in onda anche in altri paesi, fra cui l’Italia, negli anni seguenti. Sicuramente sono stati Johnny Knoxville e Bam Margera i più emblematici protagonisti di questa serie di ridicole prove di televisione demenziale, che hanno poi espresso tre film della Paramount Pictures, con un costo 5 milioni di dollari e con un certo seguito (22 milioni di incassi). Diciamo che si tratta di una versione idiota di “Pulp Fiction”, basata più su persone che volevano far sembrare reali le loro gesta, o forse lo erano, ma chissà, la tv non è sempre limpida.
Nel 1999 Johnny Knoxville sperimenta su di sé degli spray di autodifesa al peperoncino, delle scosse elettriche (tipo pistole recentemente adottate dalla polizia) e altre stupidaggini che gli passavano per la testa. Da questi video promozionali nacquero il programma e in seguito i film che ospitavano gli sketch censurati dalla tv. Come venire lanciati da una catapulta in una barca in mezzo a un lago. Oppure distruggere due auto in scontri reali. Fermare una carica di bisonti mentre entrano nel recinto dei cow boy. Correre in una strada mentre avvengono delle esplosioni ai lati. Scendere per un pendio in due su un carrello del supermercato a folle velocità. Insomma sembravano i giochi dei bambini deficienti, quando sfuggivano al controllo della mamma.
Dal punto di vista sociale è risaputo che l’adolescenza rappresenta il passaggio dai valori condivisi con la famiglia a quelli da condividere con il gruppo di amici. È l’età in cui si vive in comitiva, si sta sempre con gli amici, si va allo stadio assieme, in vacanza assieme, alle feste, passando sempre più tempo lontano dalla famiglia e ovviamente scoprendosi poi più lontani mentalmente da questa. Oltre all’aspetto sociale c’è il riflesso individuale. Cosa c’è nella testa degli adolescenti che li porta a rischiare la propria vita o, quanto meno, ad essere attratti da questi fenomeni estremi? Secondo la psicoterapeuta Maria Sneider “Per i giovani è tipico sfidarsi, ma chi è sano di mente sa anche quando raggiunge il limite e deve fermarsi. Negli altri casi, invece, non si riesce a porre un freno: si può essere in presenza di una patologia, che può manifestarsi come forma depressiva o senso di onnipotenza. Nel primo caso può anche essere che il ragazzo non abbia dato segnali preoccupanti o evidenti in passato, ma che soffra di una certa fragilità. Nel secondo spesso si tratta di giovani anche ben integrati, ma che credono di poter sfidare la morte, vincendola, perché in adolescenza capita che la morte sia mitizzata”.
È la competizione con gli adulti quello che può creare un problema nelle menti fragili degli adolescenti. Il loro senso di onnipotenza, insito nell’evoluzione stessa dell’età, cambia il rapporto con la realtà e creare l’occasione del conflitto con un adulto, può essere deleterio quando poi il giovane verifica la sconfitta. Lo scontro avviene sui doveri cui il giovane è refrattario. Un atteggiamento eccessivamente punitivo farà scattare l’incomprensione e la ribellione. La scuola genetista invece fa discendere certi atteggiamenti dei ragazzi, dai cambiamenti fisiologici del cervello, connessi con lo sviluppo. Sarah-Jayne Blakemore, professoressa di Neuroscienze Cognitive all’University College di Londra, ha dedicato all’argomento anni di studi e il libro rivelazione “Inventare sé stessi. Cosa succede nel cervello degli adolescenti.” sostiene che «Il cervello cambia molto durante l’adolescenza, sia da un punto di vista funzionale che strutturale: la materia grigia raggiunge l’apice al termine dell’infanzia, ma durante l’adolescenza si riduce del 17%. Questo cambiamento evidente nella corteccia prefrontale ha ripercussioni sul comportamento, perché riguarda un’area del cervello responsabile di pianificazione, processo decisionale, inibizione di reazioni inappropriate, autoconsapevolezza e interazione sociale». Questo accade per necessità. Se ci sono connessioni attivate nell’infanzia che poi non sono più utilizzate, il cervello le cancella, invece trattiene quelle sinapsi che sono più utili e le fortifica. In questa maniera, magistralmente, il nostro cervello si lascia plasmare dall’ambiente in cui si vive e fortifica quelle connessioni che sono più necessarie ad affrontare le difficoltà di quell’ambiente.
L’altro aspetto interessante è la produzione di dopamina. Nell’adolescenza la produzione di quest’ormone è scarsa. Ne segue che il senso di soddisfazione e gratificazione è inferiore rispetto a quello di un bambino o di un adulto. La dopamina si produce in concomitanza di un piacere. Fare un’attività sportiva, mangiare, una esperienza sessuale, passare del tempo con gli amici, produce l’ormone del piacere. Quando non se ne produce aumenta ovviamente il senso di noia, tipico in molti adolescenti. Questo tipo di ragazzi tra i 14 e i 18 anni sono sempre stanchi, assenti o melanconici. Per sopperire a questa carenza di dopamina, i giovani sono portati a vivere situazioni limite, di rischio, perché la gratificazione che ne ricavano è necessaria per il loro stato d’animo. Al tempo stesso, se non è il rischio a produrre soddisfazione e dopamina, si ricorre alla droga, all’alcool o al piacere sessuale irrefrenabile.
Del funzionamento del cervello non si è scoperto ancora tutto. “Sicuramente la dopamina è coinvolta, così come le sinapsi, che tendono a formarsi definitivamente intorno ai 20/25 anni” spiega a Donna moderna Emanuele Lucchetti, psicoterapeuta presso il Centro Leonardo di Genova, specializzato in disturbi dello sviluppo. Il giovane non ha la capacità di capire quali saranno le conseguenze dei suoi gesti. Non sa come comportarsi per evitare i rischi oggettivi. A lui tutto pare superabile data la propensione all’onnipotenza. Un adolescente, per sua natura fisiologica, è soggetto, più di un adulto, alle conseguenze dell’assunzione di stupefacenti. Gli effetti della nicotina, alcol, droghe hanno una durata maggiore nel suo organismo rispetto a un adulto. Quello che un uomo smaltisce in un giorno completo, lui lo supera solo dopo diversi giorni.
Non ho scoperto ricette utili da fornire ai genitori e ciascuna famiglia ha caratteristiche differenti che necessitano –credo- di consulenze appropriate, per prevenire o curare i diversi tipi di problemi, quando si verificano. Genericamente mi sembra che la scienza stimoli i genitori a non rinunciare al dialogo e a dedicare il maggior tempo possibile, con la migliore qualità, per stare accanto, o meglio, essere disponibili per i propri figli adolescenti. È difficile per l’adulto capire che anche se il comportamento ribelle del ragazzo provoca una reazione d’autorità, deve astenersene, senza con questo perdere di autorevolezza, nel dire dei no. Il giovane ha bisogno che qualcuno, meglio un genitore, lo ponga di fronte alle sue responsabilità e ai limiti della sua libertà. Ma questo non può essere l’unico atteggiamento del genitore, Un genitore che sia sempre assente equivale quasi a uno che dice no a tutto. Come sempre l’unica strada è quella dell’amore. Quando si ama un figlio, lo si vuole veder crescere e star bene, non proteggere tarpandogli le ali. Quanto più il giovane avrà fiducia nel genitore, tanto più ricorrerà a lui nei momenti terribili di solitudine e di scelta, così come nei momenti in cui si avverte il pericolo. L’importante è non cedere alla divisione dei due mondi: quello della famiglia e quello degli amici e del “fuori casa”. Tenere sempre aperta la possibilità di dialogare anche con quel mondo là fuori, del quale il nostro ragazzo non vede la pericolosità e i rischi.
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