“Dio, infatti, ha tanto amato il mondo…” (Gv. 3, 16-18). Il nostro brano liturgico, tratto dal discorso con Nicodemo, è legato strettamente ai versetti precedenti, dove si fa menzione di Mosè che per ordine di Dio innalzò un serpente di bronzo per guarire dai morsi di serpenti velenosi il popolo di Israele nella traversata del deserto. Il nostro brano costituisce, quindi, la spiegazione del perché “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (v. 16). Si vede quindi che l’origine di questa necessità dell’innalzamento del Figlio è l’amore di Dio per l’uomo, quella croce che nei vv. 14-15 viene vista in funzione dell’uomo che ottiene la vita eterna, ora viene mostrata dalla prospettiva di un Dio che ama.
Nel vangelo di Giovanni, il “mondo” (Kosmos) è destinatario della missione salvifica di Gesù. Dio ama il mondo, anzi lo ama al punto da dare il Figlio, quel Figlio “unigenito”. Dio quindi ama il mondo così tanto, da dare suo Figlio, un amore smisurato e universale di cui solo Dio è capace, ma questo amore non necessariamente conduce “tutti” alla vita eterna, ma solo “chiunque crede in lui” (v. 16).
L’accento è chiaramente posto sulla salvezza, è questo lo scopo dell’invio del Figlio; allo stesso tempo, però, si sottolinea come esista un altro esito possibile, infausto, che non è parte del progetto di Dio e di cui Dio non è quindi responsabile: la perdizione (v. 17). Che Dio desiderasse la vita non era una novità per l’ebreo come per il cristiano, si pensi all’oracolo del profeta Ezechiele: “Com’è vero che io vivo, io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva” (Ez. 33, 11).
Il v. 18 prosegue nella concatenazione di spiegazioni che costituisce la struttura del nostro brano. Come è facile vedere il versetto ruota tutto attorno agli unici due verbi: credere e condannare. Il legame tra di essi chiarisce una volta per tutte il dualismo del versetto precedente: al credere corrisponde la salvezza, al non credere la condanna.
Se Gesù non è venuto per condannare, non è chiaro chi è che ha condannato coloro che non hanno creduto. Più avanti, al capitolo 12, Gesù spiegherà che a farlo sarà la stessa Parola non accolta: “la parola che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno” (12, 47-48). L’accoglienza nella fede del Figlio si rivela assolutamente necessaria per ricevere la vita eterna.
Questo amore va accolto, facendo cadere ogni barriera e ogni difesa, lasciandoci avvolgere dal suo calore, inondare dalla sua tenerezza, bruciare dal suo fuoco. Accoglierlo significa farlo entrare nella propria vita, dargli spazio in cima ai propri pensieri, riconoscergli priorità nei nostri progetti. Accoglierlo significa rispondergli non solo a parole, ma con i fatti, dimostrando di prenderlo sul serio. Perché credere non vuol dire affermare la sua esistenza, ma affidargli la propria vita, mettersi nelle sue mani, investire le proprie risorse ed energie nel suo progetto.
Tutto questo nonostante le nostre fragilità e infedeltà, perché avvertiamo che Dio continua ad amarci anche quando ce ne andiamo, e attende il nostro ritorno: sappiamo, infatti, che egli non vuole condannarci, ma salvarci. Celebrare la festa della Trinità non significa dunque pagare il proprio pedaggio a un dogma oscuro, ma cogliere il senso di tutto: lasciarci afferrare da questo amore per vivere e restarne trasfigurati; prendere a cuore una relazione che risulta decisiva per questa vita terrena e per l’eternità.
Significa gustare il sapore autentico di ogni gesto e di ogni parola, di ogni fatica e di ogni sacrificio, che acquistano il loro vero significato quando sono inseriti in una storia d’amore che ci supera da ogni parte e che troverà il suo compimento in un approdo finale di luce e di pienezza.
Gloria a te, o Padre, sorgente della vita: tu hai chiamato all’esistenza l’universo, colmo di bellezza e di armonia, che noi continuiamo a scoprire lasciandoci sorprendere dalla tua sapienza creatrice.
Gloria a te, o Figlio, che hai assunto la nostra carne mortale e hai voluto piantare la tenda nella nostra storia tormentata. Tu sei venuto per strapparci al potere del male e della morte e per farci gustare una condizione nuova: la dignità dei figli di Dio. La tua morte ci ha rivelato fino a che punto sei disposto ad amarci, la tua risurrezione ha destato in noi una speranza che non viene meno.
Gloria a te, o Spirito Santo, tu che sei il Consolatore e il Difensore, colui che sostiene e rialza, colui che ci rende protagonisti di una storia nuova di grazia, di misericordia e di fraternità.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Busia, 2023; Laurita, 2023.
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