Conosciamo Rita, una mamma che sta dedicando la vita a sua figlia Amina, costretta in un letto da 34 anni a causa di una cura effettuata in base ad un esame istologico per un tumore cerebrale, diagnosticato all’età di 4 anni. Oggi Amina ha 38 anni e Rita ancora combatte con le istituzioni per tanti motivi, alcuni davvero inspiegabili.
Era il 1985, Amina aveva 2 anni quando iniziò ad avere dei casi sporadici di mal di testa violenti accompagnati da vomito. Inizialmente i medici pensarono fosse una reazione nervosa legata al fatto che la mamma lavorasse.
Amina era una bimba serena e molto intelligente, i suoi non erano semplici capricci ma i genitori non venivano mai presi seriamente in considerazione quando segnalavano quelle crisi.
Dopo due anni gli episodi erano sempre più frequenti e ravvicinati nel tempo, e pure a seguito di innumerevoli visite con specialisti e alcuni ricoveri, non si riusciva ad avere una diagnosi del problema di Amina. Rita era disperata, consapevole che la figlia avesse qualcosa, una pena che nessuno era in grado di capire.
Ci fu un incontro con un medico che stava facendo la specializzazione, e fu lui a capire tutto. Gli prenotò una visita oculistica al Bambino Gesù di Roma, visita che fu effettuata il 7 gennaio 1987. Quella mattina, dopo la visita, Amina fu trasportata d’urgenza al San Camillo per una TAC.
Amina restò ricoverata fino al 31 marzo, vivendo una situazione d’inferno. Le furono da subito inserite delle valvoline di derivazione con lo scarico del liquor nell’addome. Praticamente il tumore occludeva totalmente il terzo ventricolo (nel cervello abbiamo quattro ventricoli collegati tra loro, dove il liquor ha una funzione molto importante, ossia quella di contribuire alla regolazione della pressione intra-craniale, prevenendo le ischemie cerebrali).
I mal di testa erano creati proprio dalla pressione endocranica del liquor, con le valvoline sparirono i mal di testa, proprio perché il liquor adesso trovava una via di uscita. I medici successivamente decisero di tentare comunque l’intervento per l’asportazione del tumore.
Va tenuto conto che all’epoca non c’era la strumentazione adatta e fecero solo due esami istologici: uno estemporaneo in sala operatoria e uno di laboratorio, con conseguenti 1000 punti in testa.
Il primo esame dava indicazioni benigne, il secondo, purtroppo, maligne.
Furono diagnosticati quattro mesi di vita e mamma Rita fu convinta dai medici sul fatto che l’unico tentativo era provare una sorta di radioterapia: l’acceleratore lineare.
Rita chiese ai dottori delucidazioni in merito al fatto che, nel caso fosse vissuta, questa terapia avesse potuto creare danni. I medici le risposero che era l’unica via d’uscita, soprattutto considerando che da lì a quattro mesi sarebbe morta…
Venti terapie durarono due mesi, con conseguenze fisiche devastanti: testa bruciata, orecchie aperte all’attaccatura, globuli distrutti…
Ad un anno esatto da quella terapia, Amina ebbe la prima ischemia cerebrale, la prima, purtroppo di una lunga serie.
Nel primo evento ischemico entrò in coma, svegliandosi dopo 5 giorni con una tetraparesi spastica che gli impediva di parlare.
Seguirono anni di fisioterapia e di logopedia, ma i danni restarono comunque.
A distanza di nove anni ebbe un peggioramento delle condizioni e Rita decise di rivolgersi ad un altro ospedale (il Policlinico Gemelli) perché troppe domande restavano senza risposta.
Ora esisteva l’endoscopia e, viste le condizioni di Amina, tentarono l’asportazione del tumore, nonostante i tanti rischi che si andavano a correre.
L’intervento andò bene, il tumore fu asportato ma quando arrivò la risposta dell’esame istologico, a Rita crollò il mondo addosso: il tumore era benigno!
Sono vent’anni che Amina vive distesa in un letto, con un’encefalite post attinica dovuta proprio alla radioterapia e si nutre tramite una sonda posizionata nell’intestino e nello stomaco. Non vede e non sente bene, non parla più, ha un ritardo cognitivo importante, soffre di epilessia e molte altre patologie che interessano cuore, reni e ipofisi.
Amina vive in casa e Rita sta lottando contro le istituzioni proprio per questo. Dal 2008 ha cominciato a chiedere assistenza domiciliare infermieristica e dopo tante prese in giro, nel 2015, si è rivolta al Tribunale di Roma, vincendo la causa.
Successivamente è stata costretta a fare altri ricorsi, proprio per andare incontro alle necessità della figlia.
Nel tempo Rita ha raccolto una serie di sentenze che garantivano alla figlia un’assistenza domiciliare infermieristica h34, nel senso di assistenza h24 con doppia unità notturna.
Amina oggi dovrebbe essere assistita da sei unità infermieristiche, ossia l’assistenza minima per una situazione del genere. Le leggi regionali, purtroppo, impongono di demandare questa tipologia di assistenza alle società private che, però, hanno un modus operandi che cozza con le necessità di Amina in quanto a loro basta inviare un infermiere per ritenere l’assistenza a posto quando in realtà non è così perché un paziente come Amina va conosciuta a fondo per essere assistita e gestita al meglio per ciò che riguarda la sua patologia ma anche per ciò che concerne il suo aspetto psicologico e le sue necessità.
Amina ha bisogno di essere studiata e capita per poter essere gestita, curata e quindi stabilizzata.
Altro aspetto fondamentale è la continuità assistenziale, ossia il rispetto della turnazione regolare (proprio come accade nelle strutture ospedaliere) cosa che gran parte di queste società private non riesce a garantire in quanto i servizi da loro offerti sono strettamente legati alle disponibilità degli infermieri, che hanno un contratto a partita iva.
All’interno di queste società ci sono infermieri che lavorano solo la notte, chi poche volte a settimana, chi solo nei week end, insomma una dinamica lavorativa che va a cozzare con la realtà di Amina.
A complicare ancor di più la cosa ci ha pensato l’emergenza legata al covid. Prima del Covid, infatti, Amina poteva contare su un’equipe che era abbastanza stabile, poi il personale che faceva parte di essa è stato gradualmente assunto dal pubblico, dagli ospedali e queste società private si sono ritrovate scarnite nel loro personale.
Rita chiede alla Regione Lazio di cambiare queste leggi che obbligano alle cure delle società private. Non va assolutamente messo in secondo piano l’aspetto psicologico di Amina che ha bisogno di stabilità, della sua famiglia, della sua casa.
Rita non vuole mollare nella sua battaglia e con la sua tenacia ha fatto di tutto, scrivendo diverse mail alle Istituzioni e incontrando l’assessore regionale alla Sanità, D’Amato.
Rita ha anche aperto una pagina su Facebook denominata “Io sto con Amina” e proprio da essa è partita una iniziativa all’interno della quale sono state raccolte più di 500 foto di persone che hanno dato il proprio supporto ad Amina mostrando un cartello dove si richiedeva assistenza gestita totalmente, direttamente, dalla Asl.
La speranza è che questo movimento mediatico possa svegliare le coscienze di chi dovrebbe avere la vita di Amina come priorità.
Manuel Manconi
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