A Valle Giulia era il 1968. Un anno dopo, c’era piazza Fontana. E poi, il 1970, quella notte tra il 7 e l’8 dicembre, la notte di Tora Tora, quella del Golpe Borghese. 1974, Brescia, piazza della Loggia. Un anno dopo, il sequestro Gancia, firmato Brigate Rosse. E appena qualche mese prima di quel 4 giugno, il 28 febbraio moriva il camerata Mikis Mantakas, freddato da due proiettili. Il 29 aprile, chiudeva per sempre gli occhi anche il militante milanese del Fronte della Gioventù, Sergio Ramelli. Un salto indietro nel tempo, e incontriamo Virgilio e Stefano Mattei, nella loro casa, prima che quella notte del 16 aprile 1973 bruciasse, sotto i colpi di un fuoco alimentato per mano del Potere Operaio. E poi, qualche anno dopo, Franco Bigonzetti e Fancesco Ciavatta, morti in un vigliacco agguato. Poche ore dopo, si aggiungeva Stefano Recchioni, morto per difendere il nome e l’onore dei camerati che avevano perso la vita nella strage di Acca Larentia.
Ma il 1975 è stato anche l’anno in cui hanno perso la vita i compagni Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. Varalli, morto nello scontro col nemico. Zibecchi, investito dal camion di un nemico ben peggiore, quello in divisa, mentre anche lui tentava di difendere il nome di Varalli, morto il giorno prima. 1977, muoiono i compagni Walter Rossi e Giorgiana Masi.
E poi, un anno dopo. 16 marzo 1978. Andreotti e il suo quarto governo. Una Fiat 130, Aldo Moro e un commando di Brigate Rosse. Qualche mese dopo, il 9 maggio. Una Renault 4 rossa, via Caetani. Il cadavere di Aldo Moro.
E la strada, dove si moriva, sembrava lontana. Sembrava un mondo a sé, un mondo di pazzi esasperati, capitati lì per caso. E non si sa per quale motivo. Sembrava lontana, quella strada. Quel rumore che facevano le pistole. Tanto che si cercava distrazione in ben altro ‘Rumore’, quello di Raffaella Carrà, a Canzonissima. Bisognava non parlarne, bisognava pensare ad altro. Pesavano troppo quei morti. Pesavano soprattutto per chi ne era responsabile, ma di responsabilità non voleva saperne.
Due mondi contrapposti, che per 10 anni, e anche oltre, hanno convissuto, viaggiato su binari che spesso, troppo spesso, si sono incrociati. A raccontarci la storia di quegli anni Angelo e Beatrice, due ragazzi della Roma anni ’70. Lui, figlio di un fruttivendolo di periferia. Lei, figlia dell’alta borghesia. Lui, che nella rivoluzione armata ci crede sul serio. Lei, che la rivoluzione armata la fa per noia, e per paranoia. Lui, che piange sul sangue dei morti. Lei, che dal sangue dei morti trae nuova linfa vitale. Angelo e Beatrice, fidanzati. Innamorati più della rabbiosa passione politica che li muove, che l’uno dell’altro. Una vita agli estremi, quella di Angelo e Beatrice, rinchiusi in un ex teatro abbandonato, il loro rifugio. Dove tutto si consuma. Il loro amore malato, la loro vita, quella più intima, e quella politica, fatta di rapine, rapimenti, piani per il futuro. I soldi non bastano, bisogna colpire il potere. Una vita fatta di paure, di amici che muoiono e di amici che tradiscono. Anche se il nemico, spesso, è chi ci sta più vicino. Chi ha piani che non conosciamo. Chi ha ambizioni personali, che vuole realizzare acciaccando gli altri. Chi acciacca gli altri, e la chiama rivoluzione. Chi acciacca gli altri, e lo definisce dovere morale, per chi c’è, e per chi dovrà venire.
Angelo e Beatrice, una storia nella Roma degli anni ’70. Una storia di potere, di libertà mancata. Libertà che era a un soffio, ma poi è volata via.
Ma ‘Angelo e Beatrice’ è anche uno spettacolo teatrale che si alterna tra recitazione e realtà, tra il copione interpretato magistralmente da Michele Botrugno e Veronica Milaneschi, e documenti audiovisivi a testimoniare quegli anni. Uno spettacolo di 20 anni fa, scritto da Francesco Apolloni e affidato, stavolta, alla regia di Massimiliano Caprara. Dopo un grande successo al ‘Sidecar’, ‘Angelo e Beatrice’ torna al teatro Belli di Roma, dove rimarrà ancora per due serate, fino a domani, domenica 16 marzo.
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