Anna. Serie – Italia, Francia, 2021, 6 episodi, durata complessiva 325’. Regia di Niccolò Ammaniti. Sceneggiatura di N. Ammaniti e Francesca Manieri, dal romanzo di N. Ammaniti. Con Giulia Dragotto / Viviana Mocciaro, Alessandro Pecorella / Nicola Mangano, Elena Lietti, Clara Tramontano. Produzione originale Sky, interamente disponibile in streaming in Italia in anteprima mondiale dal 23 aprile su Sky Box Sets e Now Tv.
Anna, 14 anni, si ritrova a dover badare al fratellastro bambino in un mondo – qui la Sicilia, ma la tragedia si sospetta planetaria – che il tremendo e misterioso virus “la Rossa” ha spopolato di ogni adulto. I bambini regnano sovrani laddove possono, ma su loro incombe la spada di Damocle di rimanere infettati una volta raggiunta la pubertà; con conseguente sviluppo di rozze dinamiche e conflitti sociali “senza filtro”.
Chi vi scrive ama da sempre le distopìe e gli scenari post-apocalittici; non teme l’horror. E ama la scrittura di Niccolò Ammaniti; in particolare in Io non ho paura, Ti prendo e ti porto via, Io e te (che anzi raccomanda alla vostra lettura). Eppure non ha amato affatto Anna, nè il romanzo (del 2015) nè tantomeno questa serie. Proprio per i motivi suddetti.
Non che uno faccia le pulci a un film facendo l’esame-finestra con il romanzo da cui è tratto; è una tendenza spontanea, ma è sbagliato: dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che ciascun medium ha il suo linguaggio espressivo, che rischia di mortificare versioni alla lettera di un’opera. Proprio per non tradire l’ispirazione avuta da un certo libro, è necessario che gli autori di film / serie sentano che stanno realizzando un’opera a sé; che significa libertà di aggiungere, sottrarre, ridisegnare, in funzione del nuovo linguaggio.
Dunque poco male che Ammaniti – dichiarando che il libro fin da subito gli era stato stretto – ne abbia pesantemente rivoltato contenuti e stile: episodi nuovi, dettagli diversi, finale cambiato; e soprattutto un altro intento: poteva farlo, tanto più che l’originale sempre suo era. Quello che non convince è proprio il risultato della serie in sé.
Punto uno, i referenti autodichiarati, “Il signore delle mosche” di Golding e “Giochi di bambini” di Bruegel; più, aggiungo io, certe atmosfere di Garrone e – Dio ce ne scampi! – dei pure siciliani Ciprì e Maresco, sembrano risvegliare nel nostro il demone dell’ambizione autoriale, che quasi sempre è un cattivo consigliere.
Ne vengono fuori costosi quadri estetizzanti che inseguono, senza raggiungerli, illustri modelli visionari altrui, ottenendo al più degli spot pubblicitari; nefandezze da bambinacci autocompiaciuti (torture, tagli di arti); scene pulp (vedi le insistite inquadrature del letto col cadavere gonfio di una donna che abbiamo conosciuto magra e bella) che dovrebbero indurre lo spettatore a esclamare “Caspita, come è coraggioso a mostrarci questa cosa”; kitsch involontari (la cascata di cessi rotti tutto intorno alla Fontana Pretoria di Palermo).
A dire il vero, scene concepite per orripilare/deliziare un certo pubblico ce le aveva “ammanite” già sulla carta con “L’ultimo capodanno dell’umanità” e “Che la festa cominci”.
Alla volpe delle smanie autoriali è compare il gatto con la voce del padrone, nella fattispecie Sky, che spinge sugli ingredienti della nouvelle cuisine seriale: colonna sonora straniante, Sky-style; patchwork di colori tipo sigla di Sky Arte.
Una limitata esperienza di regia (unico precedente, part-time, Il miracolo, sempre per Sky) ha fatto il resto. Anche se lui rivendica la necessità di occupare di persona quella poltrona: “In fondo, quando sui miei romanzi avevano lavorato Risi, Bertolucci, Salvatores, era la loro visione che non corrispondeva alla mia. Però, allora, dovevo girare io, da solo, tutta la serie”. E così è stato, anche se verrebbe da chiedersi se a tentarlo di abbandonare la scrittura per il nuovo luccicante mondo delle grandi piattaforme non possano essere stati i proventi con uno zero in più.
E’ un peccato, la storia c’era e anche la possibilità di smarcarsi dai cliché più usurati del genere; anzi aver affrontato il genere (e quel genere!) in un ambiente refrattario (per una forma di complesso) come quello dell’attuale cultura audiovisiva italiana è un merito di cui dobbiamo dar atto ad Ammaniti.
Ed è un peccato anche che abbia sciupato l’ambito psicologico a lui molto congeniale dei più giovani, che – diversamente che in altre sue opere narrative di grande sottigliezza e immedesimazione – qui sono ridotti o a figure da manga giapponese, crudeli senza costrutto, indifferenti a tutto, persi nei loro giochi estetizzanti o, non sorretti da un’indagine psicologica, a personaggi poco caratterizzati funzionali solo alle dinamiche della storia: vedi Anna e il fratello. Per giunta il prevalente ricorso – data l’età – ad attori non professionisti, non aiutati con una sapiente scrittura dei dialoghi, spesso si vede.
Insomma, che vuole dirci Anna? Non certo la speranza, come, accodandosi all’autore stesso, si affannano a ribadirci i molti articoli incredibilmente entusiastici in circolazione; né il valore della memoria, che qui anzi sembra non contare nulla se non nella contemplazione cimiteriale delle meravigliose architetture della Sicilia che fu, oltraggiate dall’abbandono. Potremmo allora eleggere la resilienza (della protagonista); così da far contenti tutti gli abusatori del termine più gettonato del momento.
Ho l’impressione che Niccolò Ammaniti, partito cannibale nei ’90 con un manipolo di giovani scrittori italiani che volevano fare la differenza, ma poi scostatosi da quei modi e quei temi estremi per approdare a quella che mi è sembrata la sua cifra più personale (vedi i romanzi citati in apertura), rischi ora di essere rigettato, dalla risacca del momento che corriamo, sulla spiaggia di partenza.
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