“La mia è una cucina che interpreta l’artigianato. Non è nemmeno vintage, non scopiazza. È modernariato: si avvale di una conoscenza antropologica, di una cultura di terra e di popolo”, dice Antonello Colonna raccontandoci i due piatti che ha proposto nel week end, nelle cene di Identità Milano. Contano insieme più di mezzo secolo, 51 anni per la precisione. È del 1985 lo Stufato di verza, lardo, funghi, primo sale e tartufo nero di Norcia.
Del 2000 invece è il Negativo di carbonara.
Per questo la storia diventa un plus: “Nel preparare lo Stufato di verza, lardo, funghi, primo sale e tartufo nero di Norcia mi sento un po’ come un cantautore che torna a suonare la sua canzone d’esordio”. Era il 1985, 10 agosto per la precisione, “Quando io aprii l’ormai mitica Porta rossa: la vecchia osteria di famiglia di Labico diventò il luogo di Antonello Colonna“. Non c’era quest’antipasto, in quel primo menu, “Ma venne subito dopo, in autunno, perché è un piatto stagionale: avevo bisogno del porcino, del cavolo verza…”. L’idea nacque dalla memoria, perché lo chef italiano moderno non nasce dal nulla, bensì si forma su radici salde: “Mica come in Danimarca. Io ho girato tutto il mondo, non solo per prendere ispirazione, ma anche per vedere cosa non dover fare. Anzi, soprattutto per questo. Prendiamo Rene Redzepi: non cresce in base a una cultura gastronomica precedente, appartiene a un luogo nuovo, vergine, dove non esistono punti di riferimento”. Così è il protagonista di quella che Colonna definisce “l’invenzione recente di una tradizione. Noi siamo diversi, abbiamo un pregresso, benché esposti a subire questi fenomeni”.
Si parte dal patrimonio preesistente. “Cosa eredita un cuoco come me, romano?”, si chiede Colonna. Risponde: “Le frattaglie, il quinto quarto, una cucina povera, casereccia, genuina, dal gusto pieno. Nella Capitale non abbiamo nemmeno quei prodotti, come il tartufo bianco, che possano nobilitare un piatto. Quindi la nostra è una tavola pienamente popolare; ma in generale lo è tutta quella italiana. Non possiamo rinnegare questa nostra radice, siamo il Paese della trattoria e ne dobbiamo andare orgogliosi”. Assurdo dimenticare le origini contadine, aver vergogna di affondare le mani nell’orto e nelle aie; la campagna romana diventa per Colonna una grammatica preziosa con cui inventare sempre nuove sintassi. Un linguaggio originale, ma ispirato dalla tradizione. Roman twist, dice lui. Desacralizzare la tradizione, ma per preservarla; scansare le consuetudini, rimanendo nel solco della storia.
Che atteggiamento deve avere allora uno chef rispetto al tema della contaminazione? “Servono saggezza e misura. Oggi la contaminazione è persino eccessiva, perché manca la cultura. Abbiamo perso la memoria dell’identità. Al giovani cuochi manca l’antropologia del cibo. Partono dal 2000: quindi spume, sifoni, polveri, fiori eduli… Ben vengano, intendiamoci. Ma bisogna sapere anche cosa c’era prima; bisogna saper preparare una bouillabaisse. Oggi si fa persino fatica a parlare con le nuove leve, invece di dire prendi un rondò conviene cavarsela con prendi quella pentola lì, perché non sanno cosa sia un rondò. C’è stata tanta evoluzione in questi anni, non siamo mai stati così informati, ma manca l’istruzione”. Va benissimo cogliere qualche ispirazione esterna, ma deve esserci una struttura di base, una conoscenza, un’identità che si basa sul proprio passato, altrimenti si è esposti alle mode del momento senza poter disporre di un saldo ancoraggio. Poi ci sono anche le cattive abitudini: “Io sto combattendo la spesa telefonica, che è la fine di questo mestiere. Devi andare a vedere il prodotto, devi frequentare il mercato”.
Sulla base di questi concetti, che ne hanno accompagnato tutta la carriera, Colonna rimane inossidabile nel tempo, non scalfito dalle successive tendenze in voga: “Lavoro con la terza generazione di miei clienti. Quando ho aperto, c’erano i sessantenni che portavano con sé il figlio e anche il nipotino di 3 anni. Oggi quest’ultimo ne ha 30, e continua a frequentare Labico. Certo, da ragazzino ha avuto la sua fase McDonalds. Poi però ha raggiunto l’età del giudizio, e allora dove ha prenotato per cenare con la fidanzatina? Da me, perché qui il nonno lo portava quando era piccolo. Dove si è sposato? A Labico. Siamo una maison, insomma. Questa è la mia filiera”.
Torniamo a Stufato di verza, lardo, funghi, primo sale e tartufo nero di Norcia: “Qui c’è un elemento aromatico importante, che è la mentuccia, ossia la menta selvatica, ingrediente fondamentale del carciofo alla romana. Io sono andato ad abbinarla col fungo porcino, ho quindi contaminato ma rispettando la tradizione, perché rimane un piatto che sa di terra. In fondo tutta la mia cucina è così. All’ultima Identità di Pasta, a Identità Golose 2018, ho detto a chi assisteva alla mia lezione di chiudere gli occhi e annusare.
Preparavo uno Spaghetto Monograno Felicetti con fagioli cannellini di Atina e gioco di affumicature: il profumo della terra. Qualcuno ha detto: sembra l’odore di un temporale estivo”.
Poi c’è il Negativo di carbonara: “Interpretazione personale, eredità contemporanea della cucina romana. È il mio piatto più celebre, che non riesco a togliere dal menu. L’idea nasce da un tentativo di proporre una pasta ripiena a Roma, dove la tradizione non la prevede, è una città di fettuccine e bucatini, amatriciana e arrabbiata; al limite lasagne e cannelloni. Allora decisi di provare a regalare alla città una sua pasta ripiena. Mi misi al lavoro, nacquero ben presto i Ravioli di trippa alla romana, poi i Cappelletti di coda alla vaccinara in brodo di cappone. E infine il Negativo di carbonara.
Il nome fu un caso: ero in cucina a Labico, e mentre lo preparavo passò una persona a salutarmi, amico di famiglia. “Ahò, ma che stai a ffà? Che è?“. Assaggia, risposi. “Ma questa è la carbonara fatta in negativo!“. Trovai la definizione perfetta. In tutti questi anni ho preparato centinaia di migliaia di questi ravioli, li proponiamo in tutti e tre i miei locali – il resort di Labico, il ristorante in centro a Roma e quello a Fiumicino – perché continuano a chiederceli. La cosa impressionante è che non possiamo farne a meno nemmeno agli eventi esterni. Noi in questi tre giorni a Identità Milano ne abbiamo preparati tra i 1.500 e i 2.000…”.
Il resto del menu gioca invece su un passaggio di consegne Roma-Piemonte, perché gli altri due piatti saranno firmati da Andrea Ribaldone. Dice Colonna: “Quando si incontrano due cuochi si possiede già un alfabeto comune, come succede tra due musicisti per le note e l’armonia dei brani. Siamo diversi ma parliamo una lingua affine, fatta di odori, ricordi, sensazioni, emozioni. Mi sono imbattuto in Andrea il giorno prima dell’inaugurazione di Identità Milano. “Vieni a cucinare qui con me?”. Ma certo. E abbiamo subito pensato di affiancare alla mia Roma il suo Piemonte». Dunque uno Stufato di manzo piemontese e topinambur, “La splendida carne della macelleria Oberto cucinata comme il faut, secondo regola, con il Barolo, e accompagnata da crema di topinambur e insalatine croccanti” spiega un ispiratissimo Ribaldone.
Per dessert, invece, un suo classico, Composta di frutta e verdura, gelato allo yogurt e sorbetto al basilico, che facciamo raccontare dal resident chef di Identità Milano, Alessandro Rinaldi: “Un trionfo vegetale per un dessert fresco e aromatico: carote di Polignano, pomodorini, ananas dry, tutti in osmosi di acqua e zucchero, poi acqua di fichi, spuma di yogurt e zafferano, frutti di bosco, fragole, e il sorbetto di basilico”.
(Alessandro Rinaldi, Antonello Colonna, Andrea Ribaldone, Daniele Di Domenicantonio)
Ad affiancare Colonna in cucina sarà il suo executive dell’Antonello Colonna Resort a Labico, Daniele Di Domenicantonio.
* Articolo curato da Carlo Passera e già pubblicato su Identità Golose
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