Le GIF, acronimo inglese di “Graphic Interchange Format” sono quelle simpatiche immagini animate in formato digitale che tutti utilizziamo per colorare e arricchire le nostre chat. La visualizzazione di queste icone ha il limite di 256 colori, si muove per pochi secondi e spesso i soggetti sono animali o creaturine buffe e un po’ aliene. La loro diffusione di massa ha fatto sì che la sigla tecnica con cui si identificano divenisse il loro nome nel linguaggio comune.
Secondo Antonio Guidi si tratta di “Un modo seducente e un po’ kitsch di dare calore e rendere il nostro messaggio più accogliente e amichevole nel testo scritto”. Ma d’altro canto, è anche vero che oggi si sta diffondendo una sorta di pigrizia delle parole; oggi quando vogliamo descrivere un paio di scarpe o uno stato d’animo, piuttosto che sforzarci di spiegare, di trovare i sinonimi adatti o i termini più calzanti, inviamo uno screen shot o una faccina e tutto si risolve. Il rischio è quello di perdere la capacità di concentrarci su ciò che sentiamo e proviamo, nel tentare di comunicarlo all’altro. Secondo Guidi, a questo proposito, da una parte le Gif scaldano la comunicazione frettolosa di oggi, ma d’altra parte sono il prodotto di un’aridità a cui cercano di sopperire.
“Innanzitutto dobbiamo osservare”, continua Guidi “che dagli anni ’50 in poi la società italiana è stata sottoposta ad un bombardamento iconico, cioè ad una ricezione fitta e continua di immagini significative e di forte impatto. Noi siamo una civiltà dell’immagine, del vedere“.
Nel Timeo di Platone, la grande opera che più di altre ha influito sul pensiero occidentale, scritta in forma dialogica scritta intorno al 360 a. C., in cui vengono spiegati i fondamenti del cosmo e la sua formazione, il filosofo scrive che “Prima di ogni altro organo fabbricarono gli occhi che portano la luce”, infatti la supremazia della vista nella nostra struttura cognitiva e culturale è un elemento di cui dobbiamo tener conto anche oggi quando parliamo di emoticon sui nostri smartphone. Occorre anche dire che lo stesso Platone condannava la scrittura perché temeva che ci avrebbe fatto perdere l’abilità di memorizzare.L’uomo ha inventato la a stampa e poi Internet, e forse sì senza memoria, reiterando massacri.
Da questa tenedenza nascono anche i Meme, quelle esilarante vignette comiche in cui una foto o un’illustrazione viene associata ad un breve periodo, una frase che stride o conferisce un significato diverso alla figura. La parola “meme” viene dal greco e vuol dire “Ciò che viene imitato”. Il primo ad usare questa parola fu l’etologo e biologo Richard Dawkins nel suo libro “Il gene egoista” del 1976. Nel saggio indagava su come certe idee vincenti si diffondessero nella società e trasmettessero nell’arco delle generazione come fanno i geni del DNA. Le idee che diventano virali, sono geni che hanno prevalso su quelli che invece sono stati scartati.
“L’italiano ha bisogno di contatto e di gesticolare, e così le GIF si configurano come una sorta di gesticolare digitale. La realtà del Web si è costituita su questa compulsione di immagini”.
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