Si è spento, martedì 3 agosto uno scrittore originale, popolare e polemico. Con la morte improvvisa di Antonio Pennacchi viene a mancare uno scrittore originale, popolare per i suoi romanzi e per la sua fresca vena polemica, spesso espressa nei dibattiti pubblici.
Era divenuto veramente famoso a livello nazionale dopo aver ricevuto il Premio Strega per il suo romanzo Canale Mussolini nel 2010, l’anno stesso della pubblicazione.
Da allora è comparso molte volte in Tv per interviste riguardo alla sua attività di scrittore, ma pure per richieste di partecipazione a dibattiti su temi di interesse pubblico, sui quali ha sempre espresso il suo schietto parere, diverso dagli altri, mai allineato con le opinioni politiche correnti.
Per il suo modo irruento di discutere, alieno dalle forme di un perbenismo benpensante, è stato da molti definito ineducato e perfino provocatore. Ma egli era così: amava la polemica forte ed esprimere il proprio pensiero in modo chiaro e diretto, senza circonlocuzioni che potessero dar luogo a fraintendimenti.
Era molto diverso dagli intellettuali che frequentano i salotti, certamente a causa delle sue umili origini e della sua vita di lavoratore.
Figlio di quella generazione di veneti che, insieme a friulani e romagnoli erano stati costretti ad abbandonare per fame la loro terra d’origine ed emigrare in massa nell’agro pontino per lavorare nella bonifica di questo dalla malaria, progettata dal governo fascista per garantire alla Nazione l’autarchia economica, l’indipendenza dalle fonti alimentari estere.
Da bambino, fu testimone del duro lavoro per lo scavo dei canali e la coltivazione dei campi, compiuto da tutte le famiglie immigrate, insieme alle ostilità tra queste e quelle del posto.
Tutto ciò ha trasposto nella sua narrazione, che può ben definirsi romanzo storico; attraverso le vicissitudini inventate di alcune generazioni di una famiglia, i Peruzzi, rappresenta la fatica e le disgrazie di tutti nello sforzo immane di bonificare il territorio.
Sforzo compiuto più per riscattare se stessi, che non per aderire passivamente al grandioso progetto governativo, che comunque riuscì nell’intento, laddove aveva fallito prima l’Impero romano, poi il primo Stato unitario.
Poiché il libro mette l’accento sulla fatica quasi eroica degli uomini, il racconto può ben a ragione definirsi un’epopea moderna, simile a quelle narrate dagli antichi aedi, o cantori.
Quando ne veniva richiesto l’autore metteva sempre in risalto che egli aveva inteso esprimere i sentimenti, i bisogni fondamentali, la lotta sulla natura per ottenere il riscatto dell’uomo che aspira alla sua dignità e all’uguaglianza con i fratelli che hanno sofferto con lui.
Ciò si riconnette al suo particolare percorso culturale. Da ragazzo, probabilmente influenzato da una certa tradizione nostalgica, aveva aderito alla destra.
A scuola era stato sempre ribelle ed animatore di proteste. Agli inizi del ’68 si fece espellere dal’MSI, poiché aveva promosso una manifestazione a favore del Vietnam, contro gli USA.
Il che giustificò dicendo: “Se noi appoggiamo quei popoli che riteniamo oppressi dal comunismo, perché non possiamo dire che i vietnamiti devono essere padroni a casa loro?”
In questa giustificazione si manifestava il suo animo naturalmente anarchico, insofferente di ogni costrizione. Questa ed altre vicende raccontò nel libro autobiografico Il fascio comunista, che forse non fu allora, e non oggi, commentato correttamente.
In questo romanzo si trova esposta la crescita sentimentale e politica di un giovane ribelle, che passa anche attraverso l’esperienza della pratica maoista dell’UCI (Unione Comunisti Italiani), di cui, in particolare del leader nazionale, fa una critica radicale.
Poi, da adulto, avendo lavorato trent’anni in fabbrica, anche lì distintosi nelle lotte sindacali, si laureò in Lettere all’università La Sapienza di Roma. Da allora intensificò il suo lavoro di scrittore, ritirandosi un poco (ma non sempre) dalla politica attiva.
Dal punto di vista ideologico approdò all’analisi marxista della storia, condotta però sempre in modo indipendente dalle interpretazioni e imposizioni di partito.
Tant’è che negli anni ottanta fu espulso una volta dal PCI, un’altra dalla CGIL.
Ha continuato sempre ad interessarsi dei problemi della sua Latina/Littoria, come gli riconoscono non soltanto le autorità, ma soprattutto la gente comune.
Personalmente, ricordo di averlo conosciuto dieci anni fa, quando venne nel mio paese, Artena, con il mio amico giornalista Luciano Lanna, che aveva stretti rapporti con lui. Parlò in una conferenza promozionale del suo romanzo, appena premiato con lo Strega.
Ma il dibattito che ne seguì fu ad ampio raggio, proiettandosi sulla situazione dell’Italia attuale e dei rapporti tra potere e cultura, anche a livello locale.
Il suo eloquio, molto colloquiale, era però profondo e anche spiritoso.
Vorrei aggiungere un’altra curiosità da parte mia. Qualche anno prima, un altro amico mi aveva consigliato di leggere Il fascio comunista; al che, io avevo reagito indispettito, memore del fatto che, subito dopo il ’68, si esibivano certe formazioni come nazimaoiste: in realtà, erano fascisti “mascherati” con l’intento di creare scompiglio e discredito.
Ovviamente, il libro di Pennacchi, che poi ho letto, non ha nulla a che fare con ciò, anzi può contribuire alla visione storica.
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