Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo preso confidenza con la scienza della statistica, una scienza fatta di numeri e grafici a torta con spicchi colorati o curve che spesso sembrano dirci tutto e niente in riferimento alla pandemia, tanto da farci distrarre da un’altra drammatica realtà, quella dell’aumento vertiginoso dei suicidi.
L’ennesima curva di un grafico che vede impennarsi verso l’alto e sulle cui cause nessuno sa dare concretamente una spiegazione. Un numero crescente che vede al suo interno nette percentuali in crescita di uomini rispetto alle donne e una crescente percentuale di giovani. Difficile avere un quadro dettagliato a livello territoriale, come difficile fare una stima reale dei tentativi di suicidio. L’unica certezza che drammaticamente emerge è l’aumento esponenziale di episodi. La correlazione causa-evento riconducibile al vissuto della pandemia è tra i motivi più accreditati.
Ad ormai quasi due anni dall’esplosione del virus, l’incertezza è ancora forte come anche il senso di smarrimento e paura. La crisi economica, il distanziamento e le singole realtà del territorio possono offrire sicuramente un canavaccio di lettura per comprenderne le cause, ma c’è molto ancora da verificare. La particolarità del dramma porta le famiglie a chiudersi nella riservatezza e diviene difficile cogliere dettagli importanti o segni premonitori.
La persona che decide di togliersi la vita è una persona che ha perso fiducia in se stesso, negli altri, nelle possibilità e nel mondo. È una persona la cui sofferenza è indicibile e non sempre comprensibile. Una persona che non ha più la forza né il coraggio di sopravvivere al suo stesso malessere, anche se paradossalmente per togliersi la vita serve un coraggio sovrumano. Un coraggio ed una spinta che servono a sovrastare le stesse leggi dell’istinto a sopravvivere. Siamo evoluzionisticamente sopravvissuti proprio grazie a tale istinto.
Le risposte di attacco o fuga sono comportamenti ben collaudati proprio in funzione della nostra sopravvivenza che si sono affinate grazie alla vicinanza dei nostri simili e alla vita sociale del branco. E allora cosa sta succedendo?
Perché alla continua altalena dei grafici della pandemia in parallelo vediamo una drammatica linea in salita del numero di suicidi? Non possiamo negarlo, una correlazione diretta fra i due eventi sicuramente c’è, ma forse una motivazione ancora più profonda è da ricercare nel modello socioculturale che ci vede sempre più soggetti al fallimento e al giudizio.
Una società che obbliga alla performance quotidiana, al risultato ad ogni costo, una società che esclude e denigra la sconfitta come ancor più non considera plausibile la debolezza.
La cultura del “sempre saper rispondere a tutto con adeguata forza” che poi dimentica le differenze caratteriali, le singole debolezze arrivando ad isolarci malgrado vicinissimi gli uni agli altri. Ma intanto i numeri di questa realtà divengono sconvolgenti.
Il Giappone, storicamente uno dei paesi con il più alto numero di suicidi, ha dimostrato con studi scientifici quanto la cultura della massima performance a tutti i costi, sia tra le cause di autolesionismo e suicidi, dando prova anche di quanto un tessuto sociale pretenzioso e giudicante porta all’isolamento e alla perdita di fiducia in se stessi.
Ecco allora che in un periodo particolarmente viziato dalla fragilità sociale come quello che viviamo la miscela diviene esplosiva e l’individuo più fragile finisce per soccombere a se stesso schiacciato fra l’incertezza del futuro e la propria insopportabile angoscia! Saper cogliere l’insofferenza dei nostri cari può fare la differenza. Ma non basta. Ci vuole accoglienza, perché spesso il posto più pauroso dove perdersi è dentro se stessi.
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