Sugar Tax. Il nome è ovviamente ufficioso, ma è il caso di iniziare a memorizzarlo. Perché è molto probabile che si traduca in un provvedimento concreto, già nei prossimi mesi o eventualmente in seguito.
L’idea, in pratica, è quella di tassare le bevande zuccherate. Le motivazioni sono due. La prima è quella ovvia: avere nuove risorse da destinare altrove. E su questo torneremo più avanti. La seconda, invece, è abbastanza pretestuosa: disincentivare l’uso massiccio di questo tipo di bibite. Una cattiva abitudine che è tra le cause dell’obesità giovanile.
Il problema esiste realmente: secondo le statistiche, in Italia riguarda il dieci per cento dei bambini, mentre nell’Unione Europea si sale addirittura al 20 tra le ragazze e al 25 tra i ragazzi. Un danno che ovviamente non è solo estetico ma sanitario. Le ricadute sul sistemi sanitari nazionali arrivano a incidere fino al 7 per cento dei budget complessivi.
Allo stesso tempo, però, è a dir poco dubbio che un intervento di questa natura possa fare davvero da deterrente. Per riuscire a scoraggiare il consumo, infatti, l’ammontare del tributo dovrebbe essere cospicuo. Tanto cospicuo da rendere difficoltoso l’acquisto. Uno scenario che è praticamente impossibile: non è che l’aranciata o il chinotto, o quello che sia, possa arrivare a dei prezzi da vino doc o da liquore di qualità.
La prospettiva verosimile è invece quella di un aggravio limitato, ma capace di generare un gettito considerevole in forza dei volumi di vendita che sono certamente enormi. Nel Regno Unito, dove la tassa è stata introdotta il 6 aprile di quest’anno, ci sono due fasce: una di 18 pence al litro (circa 20 centesimi di euro) per le bibite con un contenuto di zucchero superiore a 5 grammi ogni 100 millilitri; l’altra di 24 pence al litro (circa 26 centesimi) per le bevande con più di 8 grammi di zucchero per ogni 100 millilitri.
Assobibe, l’associazione degli industriali delle bevande analcoliche che aderisce a Confindustria, ha fatto subito una levata di scudi. Lamentando le difficoltà del settore e paventando ulteriori contrazioni dei consumi, che andrebbero a scapito sia del numero degli occupati, sia degli investimenti futuri.
Nel tentativo di dare maggior forza alle proprie rimostranze, il caso specifico viene collegato agli scenari generali: le tasse limitano le vendite e questo va in direzione opposta alla crescita. Aumentando il clima di incertezza, si vanno ad alimentare delle reazioni a catena.
Francamente, una “analisi” esorbitante. Non è che se si vendono un po’ di bibite in meno, il futuro del Paese sia compromesso.
In un primo tempo sembrava certo: i proventi della “Sugar Tax” sarebbero serviti a coprire i mancati introiti derivanti dalla soppressione dell’IRAP per i titolari di partita IVA fino a 100mila euro. L’introduzione della tassa, inoltre, pareva limitata al caso in cui non fossero sufficienti le risorse reperite con altre misure.
Adesso, invece, si è fatto avanti il ministero dell’Istruzione, rivendicando i fondi per sé. Marco Bussetti, il titolare del dicastero, ne parla quasi come di un dato di fatto. “Utilizzeremo la cosiddetta ‘sugar tax’ – afferma in un’intervista a Repubblica – per trovare i 100 milioni che servono all’università e incrementeremo il Fondo ordinario”. Il viceministro Lorenzo Fioramonti lo segue a ruota, cucendo insieme l’intento sanitario e il sistema scolastico: “Questa tassa ha un doppio valore, ridurrà le malattie cardiovascolari, diminuendo l’utilizzo di zuccheri nelle bevande, e aiuterà a far crescere l’università e la sua ricerca”.
Insomma: la tassa è ancora allo stato di ipotesi, o poco più, e già si discute in pubblico di cosa farne. Mentre sarebbe decisamente meglio che la questione venisse affrontata, e definita, nelle sedi competenti.
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