Tranne che per il risultato di Ignazio Marino e del PD, che nessuno immaginava così sorprendente, le mie previsioni sul voto romano, pubblicate su questo giornale la settimana scorsa, erano esatte.
Come previsto Alemanno, “lavato con Perlana”, non è riuscito a nascondere le falle ed i tarli della sua amministrazione, mentre Marino ha saputo risvegliare l’orgoglio dello “zoccolo duro” del centrosinistra, superando di quasi 13 punti il Sindaco uscente. Un fatto senza precedenti.
“Chiunque dovesse vincere, sarà il sindaco di pochi”, ho scritto, e mai previsione fu più azzeccata. Ma aggiungevo anche: “chissà se sarebbe un male…”.
Il ridimensionamento di Grillo non mi fa particolarmente piacere, ma l’avevo previsto. Il popolo, incluso l’indolente popolo romano, si schiera spesso con chi combatte il potere. Ma il popolo è anche quella massa informe, magistralmente arringata da Alberto Sordi in una delle scene più riuscite del film “Nell’anno del Signore”.
Il popolo crede anche alle promesse mirabolanti, ma è pronto a mollare tutto se non arrivano i risultati. La sua rabbia si placa solo quando “pollice verso”, vede soccombere il suo nemico. Ma se la terra promessa rimane un miraggio, il popolo torna ad adorare il vitello d’oro. Se ne accorse Mosè e se ne sta accorgendo Grillo. Il popolo non ha la pazienza di aspettare vent’anni per la rivoluzione.
Il governo di larghe intese, che fa ribollire il sangue ai militanti di sinistra e da modo alla destra di riprendere fiato, ha deluso soprattutto gli elettori di Grillo, spingendoli nuovamente nell’astensione. Poteva essere altrimenti? La colpa non è certo dell’ostracismo dei media o dell’informazione di regime, nemici inesistenti. Se il Movimento di Grillo vuole avere un futuro deve riflettere sui suoi errori e capire che gli avversari non stanno fermi, ma giocano la loro partita. Una partita che, non essendo più ristretta a due giocatori, è come un’equazione con troppe incognite, impossibile da risolvere senza un artificio. Parlando alla pancia dell’elettorato si può anche vincere un’elezione, ma per mantenere il consenso bisogna saper indicare una via d’uscita, uno sbocco concreto. E qui Grillo ha fallito.
Ora sta montando la piena di chi si preoccupa per le sorti della nostra “democrazia senza elettorato”. Io non mi preoccuperei più di tanto, perché non è la massa degli elettori a garantire la democrazia. Negli USA l’astensione è di gran lunga superiore alla nostra, ma nessuno teme che la democrazia americana sia in pericolo o che Obama non rappresenti il suo popolo.
Certo, la nostra informazione non è libera e indipendente come quella americana e per noi l’astensione al 40% è una novità con la quale fare i conti e che riduce, di fatto, lo scontro politico ad un confronto quasi elitario. Ma la nostra è, comunque, un’elite ancora numerosa che, oltre a votare, discute, elabora, propone e indica soluzioni. Insomma, gente che non si accontenta di seguire un leader ma pretende di partecipare alle decisioni. Chi si preoccupa per le sorti della nostra democrazia è evidentemente convinto che la democrazia è tanto più forte quanta più è numeroso l’elettorato.
Ma non è detto che sia cosi. Ogni elettore vale un voto, ma i voti non sono tutti uguali. Abbiamo già visto che coloro che votano acriticamente, seguendo d’istinto un leader carismatico, non rafforzano la democrazia ma la demagogia.
Alemanno, che lo sa, si è affrettato a impestare la Capitale di manifesti che avvertono “Vince chi vota”.
Sventola una nuova paura per chiamare a raccolta gli elettori, nella speranza di ribaltare anche stavolta il risultato. Ma le circostanze sono profondamente mutate rispetto a cinque anni fa, quando egli era la novità e affrontava, sospinto dall’onda lunga di Berlusconi, la “minestra riscaldata” di Rutelli. Oggi la minestra, riscaldata – per giunta irrancidita dagli scandali – è lui e gli elettori romani lo sanno. Stavolta non “vince chi vota”, ma vince chi sa scegliere.
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