Calderoli condannato per le offese a Cecile Kyenge
La condanna ci consente di porre il tema del rischio penale di chi offende gratuitamente altri anche sui social networks
Il senatore Roberto Calderoli della Lega, è stato condannato, dal Tribunale di Bergamo, a 18 mesi per aver rivolto insulti razzisti all’ex ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge, durante un Comizio nel 2013. Nella fattispecie il senatore diede dell’”orango” all’ex ministro durante una festa leghista a Treviglio e lo fece dal palco da cui arringava 1.500 persone. «Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto — aveva detto al microfono —, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango». I giudici vi hanno riconosciuto l’aggravante razziale. L’ex ministro non si è costituita parte civile e non sono previsti risarcimenti economici. Si tratta di una condanna in prima istanza e non sappiamo se ci sarà un appello ma lo escluderei, visto che tempo fa, lo stesso Calderoli, si era presentato alla Kyenge per chiederle scusa, offrendole un mazzo di fiori riparatore.
Il 16 settembre 2015 il Senato aveva salvato Calderoli dal processo per diffamazione sostenendo che il fatto non fosse sindacabile in quanto espresso da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni e dunque “insindacabile”.
Tra l’altro forse Calderoli non lo sa, e non mi sorprende, che gli “orango” non vivono in Africa, continente del quale è originaria la signora Kyenge, ma nel Borneo. Di solito chi usa offendere gli altri è sempre vittima di un forte livello di ignoranza. Come quei fascisti che affissero su un muro della Capitale che “L’Italia è nata romana e cristiana, non morirà gay e mussulmana”, se avessero studiato la storia saprebbero che Roma è nata pagana, che in Italia (come concetto geografico) ci sono sempre state diverse religioni, che l’imperatore Settimio Severo era nato in Libia. Giulio Cesare era bisessuale e l’imperatore Adriano dichiaratamente gay. Saprebbero che Sant’Agostino era nero di carnagione e nato in Algeria. Gesù era ebreo e palestinese e a Roma non è mai arrivato perché i romani lo fecero crocifiggere. Che il Cristianesimo divenne solo molto tardi religione accettata nell’Impero Romano e il fatto si consolidò a Costantinopoli. Che gli omosessuali erano tollerati a Roma e in tutto l’Impero e che “musulmana” si scrive con una sola S!
L’ignoranza spesso è alla base del pregiudizio e delle convinzioni chi offende, perché non ha altri argomenti cui appellarsi per difendere le sue tesi. Ovviamente la disputa politica ammette la critica, anche dura e schietta, ma passare il segno, arrivando alle offese personali e di stampo razzista, non ha nessuna giustificazione. Dare alla ex Presidente della Camera Laura Boldrini della “bambola gonfiabile” o mostrare cappi in aula o augurare la morte per impiccagione del proprio avversario politico, è qualcosa di ributtante che dovrebbe imporre a tutto il Parlamento e a certi quotidiani, che usano titoli ad effetto (per esempio sotto la guida Feltri e Belpietro) e alla società intera, uno stop e una pausa di riflessione sul linguaggio politico attuale. Seminare odio porterà una sempre maggiore violenza.
La violenza del linguaggio è segno di un male nella società
Non era mai accaduto, come adesso, che i genitori si azzardassero ad aggredire gli insegnanti dei propri figli quando questi ultimi vengono redarguiti o puniti dai loro docenti. Questo è un segno della idiozia dilagante nella società ma anche di un preoccupante cedimento alla logica della violenza. Chi impedisce il dibattito televisivo urlando e gridando più forte, chi pensa di zittire l’interlocutore al grido di “Capra! Capra! Capra!” può far ridere sul momento ma è un segno di intolleranza preoccupante. La brutta abitudine di interrompere l’interlocutore che parla per non far capire nulla a chi ascolta è un segno dei tempi e della carenza degli argomenti politici di certi personaggi. Per questo personalmente odio i “faccia a faccia”. Non servono a niente se non ad alzare l’ascolto del programma nell’intento di vendere più pubblicità e non far capire nulla agli elettori con la scusa del confronto democratico. La democrazia è partecipazione, cantava Gaber e aveva ragione.
Non mi sembra ci sia molta democrazia, in un sistema in cui la campagna elettorale si svolge con trasmissioni di liti in tv e campagne di falsificazioni sui social networks.
La lite, l’offesa, la violenza sono al posto degli argomenti
Non si può più accettare che vi siano studenti che prendono a pugni le insegnanti, minacciando ritorsioni anche più gravi… o che di pari passo con il procedere di una sempre maggiore libertà delle donne, nell’esprimere il loro pensiero e la loro identità, attraverso il comportamento e la maniera di affermare sé stesse, si passi, da parte di fidanzati, mariti o parenti, a violenze inaudite, fino all’omicidio, per riaffermare un potere ormai perduto per sempre. Tutto questo è frutto della stessa ideologia violenta che pervade la nostra società. Violenza della quale ci dovremo liberare se non vogliamo cadere in situazioni di incontrollata perdita delle nostre libertà e dei diritti di convivenza civile difficilmente conquistati.
Le offese su Internet si possono denunciare
Premesso tutto questo, l’occasione è buona per tornare a parlare delle offese razziste, che sono un male della nostra società, soprattutto da qualche anno a questa parte. Attraversano vari momenti del vivere civile, dagli stadi di calcio, ai social network, alle strade, alle scuole. Quello che una volta poteva essere uno sfottò, una presa in giro bonaria, col tempo e con l’esasperazione degli animi, è attualmente diventata una pessima abitudine e una volgare manifestazione di intolleranza civile. Tutto ciò, ne sono convinto, è seguito a una precisa volontà politica di marcare un solco, una divisione, nella nostra società, in seguito alla presenza di immigrati di provenienza soprattutto africana, o rinverdendo i vecchi pregiudizi contro zingari e barboni.
Non c’è bisogno che di ricordare la lunga discussione attorno al tema delle offese gratuite, che quotidianamente riscontriamo su Facebook o su Twitter. In qualche caso hanno coinvolto esponenti politici, in altri semplici studentesse o giovani diventati oggetto di bullismo da parte dei colleghi, con casi di suicidio che hanno allarmato l’opinione pubblica. Più abitualmente esprimere un parere qualsiasi su un fatto di attualità o su una squadra di calcio o su qualunque argomento che vi piaccia, dalla cucina alla moda, dal sesso al corteggiamento, sui social network, può capitare che si trasformi in una stupida lotta verbale, con minacce e offese ed epiteti violenti e volgari. Sono in moltissimi gli utenti dei social network disgustati da questa tendenza, che sembra sopraffare la volontà di scambio di opinioni dei più, tanto da decidere in qualche caso di abbandonare il sito e chiudere il proprio profilo. Ricordo il caso di un mio amico al quale era stata rubata l’identità per attaccare e offendere, facendo credere che fosse improvvisamente impazzito, oppure un altro caso di un ristoratore che veniva attaccato con ingiurie e parole oscene, per un disservizio avvenuto nel suo locale. Tutte cose inaccettabili e con le quali la legge non ammette tolleranze.
Lo schermo “social” non giustifica le offese
La realtà virtuale non è una zona franca in cui ci si possa permettere qualsiasi insulto o minaccia, al contrario deve essere considerata esattamente pari a quella reale sotto il profilo dell’effetto delle offese e critiche con le conseguenze logiche sul piano legale. Tutto quello che pubblichiamo su Facebook, Twitter, Instagram o altro può essere usato contro di noi davanti a un Tribunale.
Ci sono quelli che si divertono a prendere di mira una persona per criticarla qualsiasi cosa questo esprima sui social. Si chiamano “Haters”. Ma sono casi di demenza che andrebbero curati senza tutela sanitaria. Mi preme sottolineare che la libertà di espressione è tutelata dall’articolo 21 della Costituzione della Repubblica Italiana. Una libertà che ha dei limiti, quello di non oltrepassare la critica e di offendere. La critica deve essere pertinente, non generalista, legata ai fatti concreti alle dichiarazioni espresse e provate. Deve essere continente, caratterizzata da toni educati e dalla volontà di censurare una volontà, una dichiarazione senza tuttavia offendere o insultare l’altra persona. Sui social network invece spesso si utilizzano foto, immagini, dichiarazioni inventate, si danno per buone cose del tutto false, architettate ad arte per seminare odi, disaccordi, pregiudizi. Troppe volte abbiamo assistito sui social a “notizie” poi risultate “bufale”, inventate per denigrare, perché persone senza conoscenza e senza consapevolezza trovassero conforto delle loro tesi razziste in esse.
Il Codice Penale prevede pene severissime
È insopportabile come la disinformazione sia diventata oggetto di diseducazione popolare. A tutto questo la stampa seria e i cittadini responsabili debbono poter opporre un freno e smascherare ogni azione di campagna di falsificazione della verità. L’articolo 595 del Codice Penale punisce il delitto di diffamazione, stabilendo che: “chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro.”
Inoltre: “Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065e euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro”.
Con riferimento alla diffamazione mediante social, una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. I., 2 gennaio 2017, n. 50) ha chiaramente affermato che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma del codice penale, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.”
Non basta invocare la legge per impedire un reato
Oltre al piano legale c’è anche quello umano e civile. Quando sui social è stata offesa Silvia Romano, la ragazza di 23 anni, rapita in Kenya, dove svolgeva la sua opera di volontariato presso una Onlus, perché non aveva fatto la stessa scelta in Italia, si è più volte incappati in questo reato. Ma non dobbiamo aspettare la denuncia per difenderci da questi insultatori cronici e sprovveduti. Possiamo intervenire noi per primi e zittirli.
Verrebbe voglia di prendere una a una, queste persone e indagare sulla loro preparazione culturale, sul loro senso civico e sulla loro disponibilità verso il prossimo. Ognuno può avere l’opinione che vuole ma una cosa è un’opinione e un’altra offendere chi non ha scelto di fare quello che altri vorrebbero. E mi piacerebbe sapere in che modo questi accusatori invece abbiano assolto ciò che rimproverano a Silvia. Ma lasciamo perdere. Ci sono Italiani ai quali piace lamentarsi, criticare, spettegolare e non fare nulla. Come quelli che mettono sempre a confronto gli immigrati con i disabili italiani, i terremotati italiani e i disoccupati italiani, dimenticando che stiamo parlando di “esseri umani” con uguali diritti. Non credo –inoltre- che chi è un semplice immigrato senza documenti di accoglienza e senza fissa dimora, in questa Repubblica, riceva più attenzioni, soldi o abbia più diritti di un italiano residente, questo non è mai stato dimostrato.
Oppure come quelli che protestano per la sporcizia nelle strade di Roma. Se capitasse a Trento o a Belluno state certi che gli abitanti non aspetterebbero che la sindaca si organizzi a puntino per liberare le strade dell’immondizia davanti alle scuole. Basterebbe che invece di protestare, offendere e lamentarsi delle ingiustizie, si prendesse spunto da come si organizzano altrove, per risolvere i problemi di casa nostra.