Periodicamente, e ormai sempre più occasionalmente, il caos magistrati evade dall’oblio in cui i media mainstream stanno cercando di confinarlo. Stavolta, l’irruzione si deve a un’intervista rilasciata da un altro togato, Antonio Di Pietro. Che ha lanciato un pesantissimo j’accuse all’ex Pm Luca Palamara, indagato dalla Procura di Perugia per corruzione, e ai colleghi coinvolti nelle chat di quest’ultimo.
«Mi preoccupano i tanti Palamara non emersi, tutti coloro che non sono stati intercettati ma comunque hanno trasformato la magistratura da servizio in occasione di potere personale». Così Di Pietro, Pm di Mani Pulite, esprimendo un’opinione piuttosto diffusa. Quella che il potere giudiziario non possa cavarsela solo puntando il dito contro un capro, anzi un “tonno espiatorio”. «Il Csm ha creato il cancro che lo sta uccidendo, scegliendo il sistema elettivo e aprendo delle vere e proprie campagne elettorali».
Un ragionamento condiviso anche dall’ex presidente dell’Anm, che già qualche settimana fa si era scagliato contro la riforma dell’Ordinamento giudiziario del 2007. Una riforma pensata per evitare che gli avanzamenti di carriera avvenissero solo per anzianità, escludendo quindi il merito. Il cui spirito è stato però stravolto da quella «modestia etica» di cui ha parlato il Capo dello Stato Sergio Mattarella.
«Questa riforma trasformò i generali in soldati e i soldati in generali» ha concluso l’ex ras di Unicost. Con il potere decisionale che cadde in via esclusiva in mano alle correnti in seno al Consiglio Superiore della Magistratura.
Di Pietro concorda almeno nel merito, tanto da aver azzardato perfino un paragone con Tangentopoli. «Allora tutti i politici si mettevano d’accordo per spartirsi le mazzette mentre oggi le toghe si accordano per dividersi il potere. E in entrambi i casi c’è stata una degenerazione, un tempo dei partiti, adesso della magistratura», l’argomentazione.
Parlando di degenerazioni, bisogna dire che Palamara non si è fatto mancare proprio niente. Per esempio, è notizia di questi giorni che controllasse lo stabilimento di Olbia Kando Istana Beach, di cui era socio occulto tramite un prestanome. Un commercialista romano, di nome Andrea De Giorgio, che aveva anticipato all’ex consigliere del Csm la somma necessaria ad acquisire le quote dell’impianto. E che in cambio «aveva ricevuto incarichi dai tribunali e dalla Procura di Roma», come si legge negli atti dell’inchiesta perugina sull’ex Pm della Capitale.
Queste attenzioni non fanno comunque parte delle contestazioni, né penali né disciplinari, all’ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Tuttavia, secondo i giudici del capoluogo umbro svelano «rapporti poco trasparenti o, comunque, commistioni di interessi quantomeno sintomatici» di un uso improprio del ruolo di magistrato.
Soprattutto considerando certe conversazioni tra Palamara e un terzo socio, Federico Aureli, già titolare di una concessionaria di moto. Conversazioni centrate su un procedimento penale aperto dalla Procura di Roma a carico della moglie e della madre dell’imprenditore. «Mai ho chiesto a Luca di aiutarla e di intervenire» si è difeso questi di fronte ai Pm perugini. Ma ragioni di opportunità avrebbero suggerito, perlomeno, maggiore prudenza.
L’ex leader dell’Italia dei Valori, nel frattempo divenuto avvocato, non ha voluto comunque processare il sistema, bensì i singoli individui «che hanno umiliato la magistratura». All’interno della quale ci sono, ovviamente, anche «molte brave persone».
Il problema è che, come ha ammesso anche Di Pietro, comandano le mele marce. Ovvero, «i magistrati che aprono le inchieste pensando alla propria realizzazione privata anziché alla loro funzione istituzionale» ha insistito l’ex Pm molisano. Che ha messo nel mirino il «reato di abuso di ufficio, in cui il politico di turno deve dimostrare di non essere colpevole. È la resa del diritto: si anticipa la condanna non essendo in grado di provare il reato. Sono inchieste che garantiscono notorietà ma non giustizia».
L’avvocato se l’è presa anche con l’Associazione Nazionale Magistrati, «che per quel che mi riguarda neppure dovrebbe esistere». I sindacati, infatti, «servono per difendere i lavoratori dal potere ma i magistrati, che hanno il potere più grande, da che cosa si dovrebbero mai difendere?»
Di Pietro, poi, ha fornito la sua ricetta per provare a uscire da questo stato di avvilente decadenza e imbarbarimento. «Le nomine dei capi della magistratura non devono essere fatte dalle correnti ma dal Presidente della Repubblica, dalla Corte Costituzionale e, per la restante parte, tirate a sorte».
Non è certo l’unico addetto ai lavori ad auspicare il sorteggio come rimedio contro l’attuale abbrutimento morale della categoria. Quando il Ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede lo capirà, non sarà mai troppo tardi.
Per ora, resta il caos magistrati e quella che è stata definita “dittatura dei peggiori”, per cui chi non è sufficientemente schierato «ne paga le conseguenze». Capitò anche al rimpiantissimo Giovanni Falcone, come ha ricordato l’ex Pm di Tangentopoli. Che ha concluso con una constatazione amarissima e inquietante. «Un magistrato può essere fermato solo facendolo saltare in aria, come capitò a Giovanni [Falcone, N.d.R.], o da un altro magistrato, come capitò a me».
Con tanti saluti a quella che un tempo fu la giustizia. Il Marchese del Grillo fece suonare le campane a morto per molto meno.
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