Marco è un poliziotto penitenziario con più di vent’anni di servizio in un carcere che ospita anche il 41 bis, preferisce restare anonimo per non incorrere in “malintesi”. Dopo il nostro approfondimento sui suicidi in prigione ci ha contattato per raccontarci il carcere con gli occhi di un poliziotto.
Marco, raccontaci cosa significa lavorare in prigione
Adesso io non sono più in servizio in carcere da qualche anno, sono dislocato a sedi esterne dove i detenuti vengono magari a lavorare, ma i poliziotti penitenziari hanno un compito delicatissimo, che è quello di prendersi cura dei bisogni delle persone che sono in cella. Sono l’unico punto di riferimento del detenuto. Abbiamo il compito di intercettare e aiutare queste persone nei loro bisogni, tra noi scherziamo su questo aspetto dicendo che se serve facciamo anche da psicologi.
Com’è la vita del poliziotto penitenziario?
La vita di un poliziotto dentro il carcere è come quella del detenuto. Non devi immaginare che un poliziotto possa permettersi libertà nel carcere, umanamente non lo faremmo comunque ma abbiamo regole precise da rispettare.
La sorveglianza e il controllo del detenuto passano dall’ordine di servizio che viene assegnato giornalmente. Non siamo in servizio sempre con gli stessi detenuti, facciamo dei turni e questo ci consente di conoscere tutte le persone che scontano la pena nei vari bracci.
E il rapporto coi detenuti?
Noi non possiamo essere amici dei detenuti, è vietato e sarebbe poco etico. Il nostro compito è sorvegliare, non ci passa per la testa di fare amicizia o rimanere in contatto con loro dopo che sono usciti. Essere professionali significa anche lasciare da parte le simpatie.
In generale io sono sempre stato uno che non si crede lo sceriffo, il mio compito non è giudicare o essere superiore alle persone che sono lì. Devo provvedere al loro reinserimento secondo il mio compito. Non ho mai avuto problemi, anzi spesso i detenuti sono gentili.
In carcere, secondo il rapporto Antigone 2022, i casi di suicidio sono aumentati tanto, come la vive questa condizione un poliziotto penitenziario?
Ti posso garantire che il 90, anche 95 % dei suicidi in prigione, almeno dalla mia esperienza personale, avvengono per motivi che non sono legati alla detenzione. Queste persone si ammazzano perché fuori dal penitenziario non li aspetta niente. Ed è una cosa veramente triste. Molti si suicidano perché dopo magari devono essere rimpatriati ma se li rimandi quelli li ammazzano appena sbarcano.
Accade spesso che i compagni di cella salvino qualcuno che sti sta suicidando. Non è una cosa semplice da gestire per nessuno.
Ti è capitato di assistere a un suicidio?
Purtroppo sì, una mattina mentre smontavo dal turno, facendo l’ultimo giro delle celle ho trovato un ragazzo impiccato alle sbarre. Non lo dimenticherò mai. Questo ragazzo si era macchiato di un reato molto grave, in carcere aveva iniziato a vergognarsi delle sue azioni, aveva paura del giudizio dei genitori, degli amici. Alla fine si era chiuso in una ossessione che lo ha portato al suicidio.
Fa male vedere certe cose, ma pensa che oltre al suicidio per impiccagione ci sono tantissimi che si procurano autolesionismo, chi ingoia le lamette. Il nostro compito è complesso e delicato. Dobbiamo stare sempre all’erta.
Quali sono i principali problemi del sistema carcerario?
Beh, ti dico questo. Ogni anno assumiamo circa 1700 poliziotti con concorso. Sai quanto personale lascia i penitenziari? Circa 3000. Se sei sempre sotto organico, non è difficile che le cose sfuggano di mano.
Sfuggano in che senso?
Nel senso dei suicidi, delle rivolte, delle carceri sovraffollate, degli oggetti che entrano ma non dovrebbero. Se siamo in proporzione meno di 1 agente per 100 detenuti (55.000 detenuti e 42.000 agenti circa, se togli i decentrati, quelli che non fanno servizio e altre situazioni siamo a 0.5 agenti su 100 detenuti) come potrebbe reggere a lungo il sistema?
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