Ogni giorno che passa, il caso Magistratopoli assume contorni sempre più tragicomici. A cominciare dall’ostinazione con cui i media mainstream evitano di parlarne. E, in certe intercettazioni a carico dell’attore principale, l’ex Pm Luca Palamara, il confine tra dramma e farsa si fa davvero molto sottile.
«A Paolo, non solo contro Renzi, ora anche leghista! Eh no questo è troppo». Così Palamara, tanto fedele al dialetto romano da usarlo pure nello scritto, si rivolgeva al Procuratore capo di Viterbo Paolo Auriemma in relazione al dibattito sullo ius soli. L’accenno all’ex Rottamatore è significativo in quanto l’allora consigliere del Csm, in vista di un possibile approdo in politica, si era avvicinato ai suoi fedelissimi. Anche se ora ha giudicato «impropria» tale dizione.
Lo ha fatto nel salotto televisivo di Bruno Vespa che, analizzando il caso Magistratopoli, lo ha incalzato tra l’altro proprio sui rapporti con l’ex Premier fiorentino. Palamara «aveva fatto un favore a Renzi», secondo il conduttore, nel momento in cui si era speso a sostegno del Procuratore di Arezzo Roberto Rossi. Sul quale il Consiglio Superiore della Magistratura aveva aperto una pratica per un possibile conflitto di interessi. Era infatti consulente del Governo Renzi e contemporaneamente titolare dell’inchiesta su Banca Etruria, in cui era coinvolto il padre dell’allora Ministro Maria Elena Boschi.
«Io favori non ne ho mai fatti a nessuno, ci tengo a dirlo con molta chiarezza. Nella mia attività sono sempre stato indipendente» la replica del togato, che ha affermato di aver solo voluto tutelare l’operato del collega. Al quale poi, per dovere di cronaca, non è stato confermato l’incarico «appena andato via Lei», come Vespa ha maliziosamente evidenziato.
In un simile contesto, non sorprende che il dominus di Unicost difendesse a spada tratta il progetto del Pd sulla cittadinanza “facile” agli stranieri. Progetto che aveva scatenato un dibattito infuocato, e non solo perché avveniva in estate – precisamente, era il luglio 2017. Il pdl stava infatti dividendo l’opinione pubblica e, a quanto pare, spaccava anche le singole correnti della magistratura.
Auriemma, infatti, era decisamente contrario alla legge, sulla quale pungolava l’ex presidente dell’Anm chiedendogliene la ragione politica e sentendosi rispondere: «Una sola, integrazione».
Una povertà argomentativa che ha reso il collega togato un fiume in piena. «Oggi il sacerdote leggendo la prima lettura di domani ha detto che il profeta Ezechiele era ospitato, ma nello stesso tempo dava qualcosa e non si limitava a chiedere. Integriamo a colpi di legge gente che mette il cappuccio alle donne? Che non le fa studiare? Che non ha avuto l’illuminismo. Prima si integrassero poi si vede. Dell’integrazione non gliene frega niente a nessuno è una marchetta del partito democratico che fa sapendo che ha perso voti per conquistare quelli dei genitori dei minori che sono cresciuti in Italia».
Non è, del resto, l’unica volta che il capo della Procura laziale si è dissociato dalle posizioni degli altri magistrati. Abbiamo già raccontato, tra l’altro, delle perplessità che esprimeva rispetto alla prospettiva di scagliarsi strumentalmente contro l’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Era l’agosto 2018, e il segretario della Lega aveva appena vietato lo sbarco alla nave Diciotti, carica di irregolari.
«Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il Ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c’entri la Procura di Agrigento. Sbaglio?»
«No, hai ragione» era costretto ad ammettere Palamara. «Ma ora bisogna attaccarlo».
«È una ca***ta atroce attaccarlo adesso. Tutti pensano che ha fatto benissimo a bloccare i migranti» ribatteva Auriemma, che poi puntualizzava: «Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili».
Anche nel luglio 2017, del resto, il Procuratore viterbese era la voce della ragione, pure in una vicenda slegata dalla norma sulla cittadinanza. I togati erano infatti in fermento a causa di un’intervista rilasciata dal vicepresidente dell’Anm Antonio Sangermano, ex Pm del caso Ruby. Secondo cui l’applicazione retroattiva della legge Severino nei confronti dell’ex Premier Silvio Berlusconi era incostituzionale.
Nell’ormai nota chat, Palamara tuonava contro il collega – esponente della sua stessa corrente -, trovando una facile sponda nel presidente dell’Anm Francesco Minisci. Auriemma, però, obiettava che si trattava di giudizi personali, mandando su tutte le furie il consigliere del Csm. Che lo ha accusato (sic!) di essere berlusconiano e di destra.
«Io non sono berlusconiano e di destra», la replica stizzita del capo della Procura di Viterbo, quasi che si dovesse giustificare. «Ma chiunque può dire qualsiasi str***ata e non viene redarguito mentre invece lo dice uno dei nostri che addirittura Berlusconi lo ha messo sotto processo e viene stigmatizzato come uno che difende Berlusconi. Pensa se non lo aveva messo sotto processo».
Peraltro, che Auriemma non possa essere tacciato di simpatie azzurre lo dimostra un’altra intercettazione di quello stesso periodo. Nella quale il togato stigmatizzava un’iniziativa del Pm palermitano Nino Di Matteo volta a far riaprire la fallimentare inchiesta per le stragi mafiose del 1993.
L’icona anti-mafia aveva infatti segnalato alla Procura di Firenze il verbale con le dichiarazioni del boss Giuseppe Graviano che accusava il leader di Forza Italia. In tal modo, l’ex Presidente del Consiglio era stato nuovamente iscritto nel registro degli indagati. Il che, secondo il Procuratore viterbese, era un clamoroso autogol destinato a tradursi in un vantaggio politico per il centrodestra.
«Comunque lo ius soli bastava da solo a fare perdere le elezioni alla sinistra. Ora anche le indagini per mafia: un vero suicidio» scriveva nella chat captata dal trojan della Procura di Perugia. Aggiungendo: «Spero che il procuratore di Firenze affronti questa pagliacciata rapidamente».
Stendiamo pure un velo pietoso sul fatto che Palamara considerasse una determinata appartenenza politico-culturale alla stregua di un insulto. Come dicevano gli antichi, de gustibus non disputandum est.
La vera questione è se le opinioni – sempre perfettamente legittime – venivano lasciate fuori dalle aule dei tribunali. Perché un conto è il giudizio su un’istanza politica, un altro è il verdetto in un processo.
«Come fa un militante della Lega» chiedeva ad esempio Vespa, «a poter contare sulla serenità della magistratura quando sente questa roba qua?» Palamara ha svicolato, perciò non sapremo mai la risposta.
La domanda del presentatore, però, ha messo in luce quello che forse è il punto focale del caso Magistratopoli. Ovvero il fatto che un giudice non deve soltanto essere, bensì anche apparire assolutamente imparziale. E la sacrosanta indipendenza del potere giudiziario dal potere politico deve essere in tutto e per tutto reciproca, pena la totale perdita di credibilità delle toghe.
Di fronte alla quale diverrebbe inevitabile chiedersi: la legge è davvero uguale per tutti? O c’è orwellianamente qualcuno che è più uguale degli altri? Attendiamo con trepidazione – e, visto l’argomento, in senso letterale – l’ardua sentenza.
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