C’è un luogo a Roma dove si è consumata una vicenda incredibile: la Chiesa di San Gioacchino
Digito Chiesa di San Gioacchino e mentre le parole scorrono davanti a me non riesco a trattenere le lacrime. La storia inizia il 7 giugno 1943
C’è un luogo poco conosciuto a Roma dove si è consumata una vicenda incredibile. Ci sono capitato quasi per caso, seguendo una segnalazione di una persona amica. È la Chiesa di San Gioacchino, nel Rione Prati. Voluta da papa Leone XII e costruita tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento mediante contributi da ventisette Paesi.
La cupola della Chiesa di San Gioacchino con le stelle di cristallo
Colombia, Svizzera, Russia, Perù, Bulgaria, Bolivia e tanti altri hanno donato un pezzo di questa chiesa: le colonne, l’organo, il portone e tanto altro. La cupola con le sue stelle di cristallo è il pezzo forte. La luce che emana colpisce immediatamente lo sguardo non appena si varca l’ingresso e lascia il visitatore a bocca aperta. Ma questa chiesa conserva un tesoro. Un tesoro della memoria che pochi conoscono. Un tesoro legato proprio alla cupola. Una storia da brivido che voglio raccontare insieme alle emozioni che ho provato quando questo tesoro mi è stato incredibilmente mostrato.
Dunque, mi trovo nella chiesa. Sto ammirando la meraviglia della cupola stellata. Voglio saperne qualcosa di più. Ovviamente digito “San Gioacchino” su Google. Scorro qualche sito, poi ne trovo uno che racconta una storia. Una storia incredibile. Comincio a leggere e mentre le parole scorrono sotto i miei occhi, non riesco a trattenere le lacrime. È il 7 giugno 1943. Un folto di gruppo di ebrei, perseguitati politici, giovani fuggiti alla leva, giovani, anziani, vennero letteralmente murati vivi in uno stanzone tra il tetto della chiesa e la cupola e salvati così dalla furia nazista.
Inizialmente erano stipati nella sala cinematografica annessa alla chiesa, ma quando il luogo risultò insicuro, l’ingegner Pietro Lestini, propose di rinchiudere tutti nello spazio, angusto e senza luce, tra la volta della chiesa e il tetto. La proposta fu accettata e da quel momento in quel luogo, fra indicibili disagi e privazioni, vissero ogni giorno decine di persone che avevano come unico mezzo di contatto col mondo esterno, e soltanto di notte, una finestra rotonda apribile al centro del timpano, una sorta di rosone del tutto anonimo a 50 metri da terra.
Attraverso quel rosone-finestra passavano uomini e cose: cibo, vestiti, lettere, giornali, e anche rifiuti organici. A causa di quest’opera così benefica e generosa, il Governo israeliano ha insignito del titolo di “Giusto tra le Nazioni” il redentorista padre Antonio Dréssino, parroco di San Gioacchino, la suora Margherita Bernès (delle Figlie della Carità con sede proprio difronte alla chiesa), addetta all’approvvigionamento del cibo e del vestiario, l’ingegner Pietro Lestini, organizzatore e responsabile delle operazioni logistiche, sua figlia Giuliana Lestini, addetta ai rapporti con le famiglie dei murati.
Non vi dico altro, trovate tutto sul web. Ma ecco la mia esperienza
Dunque, finisco di leggere e ho un unico pensiero: andare a vedere questo luogo. Mi alzo, mi asciugo alla meno peggio gli occhi sui quali la commozione ha agito da lubrificante e mi dirigo verso la sagrestia. Entro. Mi viene incontro la signora che si occupa della pulizia della chiesa. Le chiedo come possa fare per visitare la stanza sulla cupola. Lei mi guarda con aria interrogativa e mi dice che non sa se questa sia una cosa fattibile. Probabilmente si impietosisce del mio palese sconforto e mi chiede di attendere. Scompare dietro una porta e poi ritorna dopo pochi secondi. “Viene Davide, un congregazionista, aspetti un attimo. Forse si può fare, ma serve il permesso del parroco”.
Il cuore comincia a battermi forte nel petto alimentato da una speranza che si fa più intensa quando si materializza Davide. Gli spiego chi sono, gli dico che scrivo per un giornale. Lui mi guarda, è titubante.
“La prego….”, termino io. Siamo vicini, i suoi occhi sono a pochi centimetri dai miei, ci divide un silenzio che non so interpretare.
“Andiamo, la accompagno”. Respiro, il cuore impazzito e colmo di gratitudine sembra scoppiare. Del permesso del parroco nessuno si preoccupa più. Davide apre una porta di legno. “Faccio strada”. Saliamo. Con un gesto automatico che più tardi benedirò, tiro fuori dalla tasca il cellulare e faccio partire il video. La scala è ripida, sporca, polvere e calcinacci un po’ ovunque. Non ricordo quanti piani. Un’altra porta e un’altra ancora. Altre scale. Siamo sul terrazzo, i tetti di Roma sotto di noi. Una scala a chiocciola di ferro. Saliamo ancora. Ancora una porta. Improvvisamente mi trovo sul bordo della cupola, cinquanta metri sopra la navata centrale. Guardo in basso, mi gira la testa, mi appoggio al muro con la schiena. Mi riprendo subito. La porta dello stanzone è davanti a me. Entriamo.
Calcinacci per terra, frammenti originali di ciò che occludeva il vano che i fuggiaschi avevano attraversato prima di diventare i murati vivi. Di colpo torno indietro nel tempo. Quasi sento le loro voci, i sussurri, mi sembra quasi di vederli. Donne, uomini ammassati addosso alle pareti della stanza, muti, gli occhi fissi su un punto lontano, più simili a sacchi abbandonati che a esseri umani. C’è una passerella di legno che corre tutta intorno alla stanza. “Posso camminarci sopra?”. Davide Annuisce. “Ma stia attento”.
Percorro il muro, lo tocco con le mani, e le mie dita si confondono con le loro. Respiro con un ritmo forsennato. Cerco di reprimere le lacrime e solo in parte ci riesco. C’è un rosone da cui arriva la luce che illumina debolmente la stanza. “È in realtà una finestra”, dice Davide. “Vede i cardini che ne permettevano l’apertura? Da qui passava il cibo e anche gli uomini“. Non ci posso credere. Accarezzo con le dita la parte bassa del rosone. Cerco di immaginare quell’attimo in cui si apriva per rifornire di cibo questa povera gente, le braccia che si tendevano nel tentativo disperato di afferrare qualcosa, l’aria fresca ricca di ossigeno che finalmente entrava, i polmoni che si dilatavano, tutto nel silenzio più assoluto perché non giungesse suono umano a orecchie che non dovevano sentire.
Poi la mia attenzione è catturata da alcuni disegni sul muro. Mi avvicino. Una Madonna dai capelli raccolti che tiene in braccio il Bambino dormiente. Un’immagine di una tenerezza infinita. Accanto, un Cristo con la corona di spine, la bocca aperta in un gemito di dolore, gli occhi rivolti verso l’alto. E quel dolore mi investe, mi travolge, mi entra dentro con una forza dirompente. Annaspo, mi manca l’ossigeno, cerco l’aria, devo respirare. Mi appoggio al muro tra la Madonna e il Cristo e chiudo gli occhi. Poi li riapro. Davide attende in silenzio vicino alla porta, rispettoso delle mie emozioni. La luce proveniente dal rosone-finestra lo colpisce e proietta la sua debole ombra sulla parete vicino alla porta dei murati vivi.
Riprendo a camminare e lo raggiungo accompagnato sempre dai sussurri, da occhi spenti che seguono il mio incedere incerto. Mi poggia una mano sulla spalla e usciamo. Di nuovo sulla cupola, sospesi tra cielo e terra. La porta si chiude con un rumore sordo. Mi sembra di tradire quegli occhi e quei sospiri, di abbandonarli di nuovo a un destino crudele di buio, privazioni, sofferenza. Forse dovrei tornare indietro, ma non ne ho la forza. Poi la scala a chiocciola e le scale polverose. Scendiamo in silenzio, avvolti in mille, intimi pensieri. Infine, la sagrestia. Saluto Davide e lo ringrazio. Percorro la navata verso l’ingresso con passo lento. Prima di uscire mi volto a guardare in alto, là dove ero pochi minuti prima.
E sono ancora là, anche adesso che sto scrivendo e la luce entra da una finestra del salone. I miei occhi confusi tra quegli occhi, i miei sospiri tra quei sospiri. Non dimentico e non dimenticherò mai quel luogo. “La guerra è sempre una sconfitta”, dice Papa Francesco. Se aveste qualche dubbio al riguardo, andate a visitare la stanza dei murati vivi. Saranno le vostre lacrime a darvi le risposte che cercate.