Combattenti o terroristi? Equivoci linguistici
di Massimo Persotti
Sarebbero 53 i 'foreign fighters', i combattenti stranieri, censiti e passati per l'Italia e tra questi quattro hanno nazionalità italiana. Lo ha detto il Ministro dell'Interno, Angelino Alfano, nell'informativa urgente alla Camera sui possibili rischi connessi al terrorismo internazionale in relazione ai tragici fatti di Parigi.
Foreign fighters. "Perchè parlare di 'fighters' o 'combattenti'? Li si chiami solo e sempre terroristi. Nessuna concessione, nessuna nobilitazione, neanche linguistica e culturale, va fatta al terrore, in nessun caso", ha sottolineato Daniele Capezzone di Forza Italia, pochi minuti dopo l'intervento di Alfano.
Combattenti o terroristi? La disputa non è solo linguistica ma sostanziale. Ha un fondamento di diritto ma non finisce di generare dubbi e perplessità.
La definizione di 'foreign fighters' deriva da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (la 2178/2014) che però conia una più articolata espressione: 'foreign terrorist fighters' (letteralmente 'stranieri terroristi combattenti'). Si tratta di persone che vanno a combattere in un Paese diverso da quello in cui si trovino o di cui siano cittadini. La risoluzione è stata adottata nel clima generale di «preoccupazione per la costituzione di reti terroristiche internazionali» e, non a caso, la risoluzione punta l'indice sulla «particolare e urgente esigenza di prevenire il sostegno a combattenti terroristi stranieri associati allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis)».
Lo ribadisce anche il Ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni (Agorà, Rai 3, 8 gennaio 2014): "Bisogna intervenire con forza contro il Daesh, il cosiddeto Califfato dello Stato islamico", perché "il terrorismo è diventato uno Stato tra Siria e Iraq". Daesh e Isis ma anche Is, Isil: tanti modi per definire, come spiega Tiziana Ciavardini, antropologa e giornalista di fama internazionale, "una realtà politica che utilizza la fede come motivazione per compiere atti terroristici" (intervista su Tag24).
Torniamo alle parole del Ministro Gentiloni. "Si sta combattendo il Daesh – ha spiegato ad Agorà – con una coalizione militare internazionale, cui partecipa anche l'Italia. Intervenire lì è assolutamente la prima cosa da fare, come si sta facendo, sostenendo quelli che combattono sul terreno, soprattutto i combattenti curdi che noi, come Italia, stiamo aiutando in mille modi", aggiungendo che i militari italiani "sono già sul terreno, senza funzioni di combattimento, ma per addestrare i combattenti curdi".
Terroristi, combattenti stranieri e più genericamente combattenti (i curdi chiamati in causa da Gentiloni): la confusione cresce.
Come spiegato su Gnosis (Rivista Italiana di Intelligence, n.2-2006), si oscilla tra l'idea che il terrorista sia il combattente illegittimo, in quanto soggetto non statuale, e quella per cui il terrorista è chi faccia ricorso a particolari forme di lotta bandite dal diritto. Nel primo caso terrorista sarebbe ogni combattente irregolare (partigiano, insorto, rivoluzionario, guerrigliero ecc): ma questo travolgerebbe il 'diritto di resistenza' contro un ordinamento ingiusto, che è alla base della democrazia. Inoltre non esiste Stato, partito o aggregazione politica che non sostenga una qualche lotta armata irregolare. Nel secondo, occorrerebbe definire quali siano le forme di lotta bandite, ma questo finirebbe per includere anche diversi eserciti regolari.
Ancora dubbi? Cerca di far chiarezza Roberto Toscano, ex ambasciatore a Teheran e Nuova Delhi ed esperto di relazioni internazionali. In un articolo su La Stampa (La guerra globale delle parole, 1 ottobre 2014), si sofferma sulla "clamorosa e intenzionale confusione semantica di fronte al termine «terrorismo»". Terrorismo è l'"uso della violenza contro un obiettivo privo in sé di valore militare (si tratta soprattutto di civili indifesi) al fine di piegare la volontà dell’avversario, si tratti di governi o di gruppi etnici, religiosi, politici". Molto più complessa è l'attribuzione dell'etichetta di terrorismo a organizzazioni, gruppi, rivoltosi: Fratelli musulmani, ribelli filorussi del Donbass e rivoltosi del Maidan, Hamas fino allo Sinn Fein irlandese. La storia è ricca di esempi. E lo 'Stato islamico' ne sarebbe l'ultima espressione. Un gruppo armato organizzato in struttura militare capace "di esercitare controllo su un territorio e schierare reparti combattenti" che compie azione terroristiche perché sgozzare online dei prigionieri innocenti sono azioni che non possono essere definite in altro modo.
Ma anche qui, l'accostamento tra gruppi così diversi nel tempo, nello spazio e nelle modalità di azione potrebbe generare semplicistiche conclusioni. E la giornalista Giuliana Sgrena sul manifesto (Il terrorista non è un Robin Hood, 20 agosto 2014) demolisce il mito dei "rivoluzionari che combattono per la liberazione del proprio paese", spiegando come "oggi in campo (…) c’è gente il cui unico obiettivo è quello di annientare popoli e culti diversi dal loro, e che solo per la realizzazione di questo obiettivo cercano di annettere territorio e di rovesciare poteri costituitisi più o meno democraticamente. Ci sono, in una parola, terroristi islamici".
Probabilmente, ha ragione Toscano quando spiega come il vero equivoco è nel "definire il terrorismo (…) come causa, da condannare o difendere", mentre invece è uno "strumento". Lo strumento usato anche dai 'foreign fighters' a Parigi con l'attacco armato contro la redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo. Ed è questo il grande elemento di preoccupazione, anzi terrore, dei Paesi europei e non interessati dal fenomeno dei 'combattenti stranieri' che hanno sposato la causa dell'Isis. Almeno 15mila da 80 Paesi partiti alla volta della Siria e dell'Iraq, secondo un recente rapporto dell'ONU. E che una volta tornati nel loro Paese d'origine potrebbero diventare potenziali terroristi difficilmente controllabili.