Consiglio Europeo, dopo i tempi supplementari l’esito è stato “di rigore”
I Quattro Frugali vincono su (quasi) tutta la linea, ma il Premier Conte tiene il punto sul Recovery Fund e, soprattutto, sui sussidi. Di più, obiettivamente, era difficile sperare
Ci è voluto un Consiglio Europeo (quasi) da record ma, alla fine, sui finanziamenti legati alla crisi da Covid-19 l’Ue ha battuto un colpo. Magari non uno risolutivo, ma è sempre più di quanto (non) abbia fatto finora. L’estenuante vertice si è infatti concluso con la sospirata intesa su Next Generation Eu (nome alternativo per il mitologico Recovery Fund) e Bilancio pluriennale dell’Unione. Un’intesa prevedibilmente figlia di un compromesso, che però consente praticamente a tutti i Ventisette di potersi presentare in patria con i galloni del vincitore.
L’intesa al Consiglio Europeo
La svolta è arrivata alle 5:31 del mattino dopo un negoziato durissimo, soprattutto per un Governo notoriamente non uso a lavorare «col favore delle tenebre». Deal! ha cinguettato laconicamente il belga Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo, l’organismo composto dai Capi di Stato e di Governo del Vecchio Continente.
«Un momento storico per l’Europa e per l’Italia» lo avrebbe poi definito il bi-Premier Giuseppe Conte, che da settimane insisteva sull’importanza dell’appuntamento. Adesso, ha aggiunto, «abbiamo la possibilità di far ripartire l’Italia con forza e cambiare volto al Paese. Ora dobbiamo correre».
Correre, anzitutto, verso il Piano nazionale di rilancio che il Signor Frattanto punta a presentare a settembre. I finanziamenti europei, infatti, sono legati a un pacchetto di riforme che, per quanto concerne l’Italia, dovranno riguardare dei settori specifici. Il primo obiettivo è quello della digitalizzazione del Paese, seguito dalle immancabili raccomandazioni sugli investimenti “verdi”. Sono inoltre previsti interventi sul mercato del lavoro, la Pubblica Amministrazione, la giustizia, l’istruzione, la sanità e – il tasto più dolente – le pensioni.
Il programma dovrà comunque essere sottoposto al vaglio preventivo della Commissione Europea, nonché dello stesso Consiglio a maggioranza qualificata. Era uno dei punti di maggiore frizione, con il Premier olandese Mark Rutte che premeva affinché ogni Stato membro potesse godere del diritto del veto. Alla fine l’ha spuntata lui, sia pure con una formula tanto ambigua da poter essere presentata con implicazioni anche diametralmente opposte. Tipo proibizione mascherata, oppure semplice dibattito.
I successi dei Quattro Frugali
Il tulipano ha infatti ottenuto un “super freno di emergenza” per condizionare gli esborsi al rispetto della tabella di marcia sulle riforme. Il giudizio in merito dipenderà dal Comitato economico e finanziario, un organo interno al Consiglio Europeo che riunisce gli sherpa dei Ministri delle Finanze dell’Eurozona.
Successivamente, qualunque esecutivo potrà chiedere un’ulteriore valutazione, da discutere al successivo Consiglio Ue «in modo esaustivo» (e non «decisivo», come appariva nell’ultima bozza). La deliberazione finale spetterà comunque alla Commissione (e non ai Governi come chiedeva l’Olanda), che però dovrà congelare i pagamenti durante tutto il procedimento. Il quale potrà avere una durata massima di tre mesi.
In questo modo, benché non si parli di “veto” o “unanimità” (come voleva il BisConte), vi sarà comunque la possibilità di un controllo (come pretendeva Rutte). Nonché, eventualmente, di un rallentamento nell’erogazione dei fondi – anche se la contestazione dovrebbe scattare solo in casi eccezionali.
Non è l’unico successo ottenuto dai Paesi Bassi e, in generale, dai Quattro Frugali – che includono anche Austria, Danimarca e Svezia. Anzitutto, sono aumentati i rebates, gli sconti sui contributi al Bilancio Ue di cui godono i rigoristi nordici. Con Vienna e Copenhagen che li hanno praticamente raddoppiati. Unica eccezione è stata la Germania, che a sua volta beneficia dell’agevolazione, ma ha preferito lasciarne inalterata l’entità.
Soprattutto, però, il quartetto ha ottenuto di ridefinire il Recovery Fund. Non nel volume complessivo, che è rimasto di 750 miliardi di euro – da ottenere attraverso l’emissione di eurobond, cioè facendo debito comune europeo. Bensì nella ripartizione tra sussidi e prestiti. Con questi ultimi che sono saliti a 360 miliardi (dai 250 iniziali), laddove le sovvenzioni sono scese a 390 miliardi (contro i 500 della proposta originaria). Vale a dire, sotto la soglia psicologica dei 400 miliardi che è stata a lungo terreno di scontro, soprattutto con il Presidente francese Emmanuel Macron.
L’Italia dopo il Consiglio Europeo
Per quanto riguarda Roma, va detto che il piatto non piange. Il fu Avvocato del popolo ha infatti ottenuto più fondi di quelli inizialmente previsti dalla Presidente della Commissione Ue, la tedesca Ursula von der Leyen.
Precisamente, l’Italia otterrà circa 209 miliardi di euro, di cui 81,4 a fondo perduto e 127,4 come prestiti da rimborsare a tassi bassissimi tra il 2026 e il 2056. Di fatto, i loans sono lievitati di 36 miliardi, cifra che ironicamente corrisponde (più o meno) all’ammontare del Mes. Ma l’aspetto più significativo è che i grants sono rimasti pressoché invariati, con una sforbiciata minima di 400 milioni.
Risultato che, per i prossimi sette anni, ci permetterà tra l’altro di ricevere dall’Unione Europea più di quanto verseremo. Va anche detto che i finanziamenti possono essere letti come una compensazione, visto che più o meno equivalgono al crollo atteso del Pil per il 2020.
Certo, bisognerà capire le tempistiche, che in ogni caso non potranno essere rapide. Il Recovery Fund, infatti, è legato al Bilancio settennale dell’Unione. Il quale dovrà essere prima approvato dall’Europarlamento, e poi ratificato da tutti i Parlamenti nazionali.
Le reazioni nel Belpaese
Al netto di tutti gli ostacoli, bisogna comunque ammettere che gli esiti del Consiglio Europeo straordinario erano tutto, tranne che scontati. Al punto che, con l’esclusione del segretario leghista Matteo Salvini, il Presidente del Consiglio ha ricevuto elogi anche da quanti solitamente lo criticano.
Per esempio, Franco Bechis, direttore de Il Tempo, ha twittato che «Conte ha fatto un ottimo lavoro».
Mentre la presidente di FdI Giorgia Meloni ha affermato che «Conte è uscito in piedi ma poteva e doveva andare meglio». Che, detto da una leader dell’opposizione, suona come qualcosa in più di un semplice onore delle armi.
Del resto, basti pensare che, per arrivare a un accordo tra tutti i leader, non sono bastati neppure i “tempi supplementari”. In effetti, solo per una trentina di minuti il summit di Bruxelles non ha battuto il primato di durata stabilito nel 2000 a Nizza. In queste condizioni, era inevitabile che l’esito fosse – è il caso di dirlo – “di rigore”. Dando quindi a Giuseppi ciò che è di Giuseppi, probabilmente possiamo essere soddisfatti così. Mezzi vincitori, ma almeno non sconfitti.