Coronavirus, la testimonianza di un ragazzo di Artena tornato dalla Cina
“Appena rientrato con la mia famiglia ho telefonato alla Asl di competenza, ho detto agli operatori sanitari che stavamo tutti bene”
In questo momento di panico e confusione, dovuti all'epidemia da Sars-coV-2, ma anche di vigilanza e di responsabilità personale, ci sono delle storie che ci aiutano a orientarci nel caos di informazioni. Abbiamo raccolto la testimonianza di un italiano che vive in Cina da alcuni anni e che è tornato in Italia a metà febbraio, in concomitanza con l'esplosione del virus. Un 33enne originario di Artena che gestisce tre ristoranti italiani ad Hong Kong.
“Innanzitutto vorrei spiegare che Hong Kong è una realtà cinese politicamente indipendente, una sorta di statuto speciale che la rende autonoma dal resto della Cina. Il rapporto tra lo stato cinese e la città di Hong Kong è regolato da un patto che prevede per la città un'indipendenza dal governo centrale per ancora trent'anni. In questo periodo la Cina sta cercando però di riprendersi la città con ben trent'anni di anticipo rispetto a quanto prevede questo accordo. Per questo negli ultimi mesi ci sono state proteste e la situazione politica è ancora critica anche e contemporaneamente all'emergenza coronavirus. Ad Hong Kong gestisco tre ristoranti italiani e lì mi sono sposato con mia moglie, con la quale ho una figlia. La scelta di andare via per un po' dalla Cina è maturata perché la situazione economica e sanitaria a causa del virus stava precipitando, così abbiamo pensato di tornare per un periodo qui in Italia, cogliendo l'occasione anche ritrovare parenti e amici”.
Cosa avete fatto, lei e la sua famiglia quando siete arrivati in Italia?
“Appena rientrati ho telefonato alla Asl di competenza, alla quale ho comunicato che ero con la mia famiglia, moglie e bambina, appena rientrato dalla Cina. Ho detto agli operatori sanitari che stavamo tutti bene, nessun raffreddore o altri sintomi influenzati e che ero disposto a fare il tampone per scrupolo. Mi è stato detto che non era necessario, che non hanno i tamponi, e che lo avrei fatto solo se avessi accusato sintomi. Così ho proposto l'auto-quarantena, mi hanno ringraziato per la mia onestà e ogni giorno per 14 giorni mi hanno telefonato per sincerarsi delle nostre condizioni di salute” .
Come è stato accolto dai suoi compaesani?
“È avvenuto un episodio che mi lasciato sconcertato e amareggiato. Dopo qualche giorno dal mio rientro hanno iniziato a circolare voci su un mio ricovero per coronavirus. Secondo questi pettegolezzi allarmanti sarei stato prelevato con un ambulanza e portato in ospedale, cosa che non è mai accaduta. Ho dovuto telefonare a mio padre e amici per rassicurarli, erano in lacrime. Lo voglio raccontare per far capire quanto basti poco, oggi, un'indiscrezione o un equivoco, diventa un caso drammatico, motivo di invenzione e di fantasticherie pericolose. Dobbiamo usare il linguaggio in modo responsabile”.
Cosa vorrebbe dire come appello, in quanto cittadino che conosce la sia la realtà italiana, sia quella d'Oriente?
“Non sono un medico ma ho una supposizione riguardo alle mascherine: ci dicono che dobbiamo indossarle solo se assistiamo una persona malata di influenza o se lo siamo noi stessi; anche ad Hong Kong ci è stato detto questo, ma poi ho anche scoperto che non ce ne sarebbero state abbastanza per tutti, se tutti le avessimo acquistate; perciò credo, ci dicono di non indossarle. Non perché effettivamente non possano ridurre la possibilità di contagio, ma perché non ce ne sono per tutti. Se qualcuno ci starnutisce vicino o tossisce, con la mascherina possiamo certamente ridurre il contatto delle mucose con le particelle. E inoltre la mascherina ci aiuta a non toccarci boccae naso. Ci fa da allenamento, oltre che da scudo. Nessuno scudo ora è assolutamente sicuro ma l'intuito mi dice di giocarci tutte le possibilità che abbiamo per tenerci proteggerci il più possibile”.
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