Cowboys and Indians, chi erano veramente i cattivi?

Chissà quale opinione avranno i nostri posteri tra un secolo in merito ai fatti che insanguinano Israele e Palestina dal 1947

Israele rave party, l'attacco di Hamas

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Ieri sera mi sono imbattuto in un film western dal titolo Hostiles (Ostili). Un film di recente produzione, molto duro, cruento, crudo, in cui si racconta la storia di un capitano della Cavalleria statunitense che, verso la fine dell’Ottocento, deve trasferire da uno Stato all’altro del Paese alcuni prigionieri Cheyenne. Il capitano è un uomo apparentemente senza cuore, freddo, spinto da un odio profondo nei confronti dei nativi americani.

Il genocidio degli indiani d’America

Si scoprirà a mano a mano, durante la narrazione del film, che egli aveva preso parte a numerosi genocidi (ripeterà spesso nel film: ”Ho fatto solo il mio lavoro”) perpetrati dall’esercito statunitense in cui interi villaggi di nativi erano stati distrutti e uomini, vecchi, donne e bambini trucidati. Viene citato il massacro di Wounded Knee.

Ad un certo punto del film, un caporale di quel drappello, si rivolge all’anziano capo Cheyenne, gli si inginocchia davanti e gli dice: ”Quello che abbiamo fatto ai nativi è imperdonabile… Abbiate pietà di noi“. Poi se ne va, di notte, nel bosco, e si toglie la vita sparandosi alla testa.

Oggi il film western offre un’immagine degli indiani d’America diversa rispetto al concetto di diavolo rosso selvaggio e cattivo, che uccideva e massacrava i poveri pionieri bianchi. Una immagine che si aveva fino agli anni 60. Il nativo è la vittima e non più il carnefice. Si ribella ai bianchi invasori che hanno espropriato le sue terre, sterminato interi villaggi, siglato trattati mai rispettati.

I buoni e i cattivi

Questa nuova visione del pellerossa, questo revisionismo storico, emerge negli anni settanta quando alcuni registi cominciano a girare film in cui l’indiano non è più la bestia sanguinaria e spietata che uccide i bianchi. E l’esercito americano, le Giubbe blu, non sono più i buoni che arrivano al suono della tromba de “arrivano i nostri!”. I ruoli s’invertono, i buoni diventano cattivi e i cattivi sono adesso le vittime.

Si comincia a indagare sul perché alcuni gruppi di nativi commettevano aggressioni nei confronti dei bianchi e sulle cause che li avevano spinti ad azioni cruente nei confronti dei pionieri. Molti raccontano che il loro Paese era stato invaso dagli europei e la loro terra sottratta. Si ammettono episodi di pulizia etnica perpetrati dalle Giubbe blu nei confronti di villaggi inermi abitati da vecchi, donne e bambini (il massacro di Sand Creek cantato anche da De André).

Escono film come Soldato Blu e Piccolo grande uomo, che in qualche modo esprimevano al contempo una denuncia anche di quello che stava accadendo in quegli anni 70 in Vietnam, poiché una parte dell’opinione pubblica esprimeva un forte dissenso nei confronti di quella guerra e dei militari a stelle e strisce, spesso accusati di genocidio nei confronti delle popolazioni vietnamite.

Come il cinema ha raccontato il far west

Prima di allora Hollywood non era stata tenera con i nativi americani, quasi sempre identificati con il male, nemici della civiltà, come un ostacolo al progresso e quindi necessariamente da eliminare o tutt’al più da “ rieducare” rinchiusi (i pochi superstiti) in riserve.

Grazie anche a film come Balla coi lupi, oggi si può dire che quasi nessuno vede più il pellerossa dell’epoca di Custer come un selvaggio assetato di sangue che uccide i bianchi senza pietà e senza ragione. La politica del governo degli Stati Uniti degli anni della corsa all’ovest nel 1800 era molto semplice, astuta e cinicamente efficace.

Veniva detto ai coloni che la terra ad occidente (il far west) sarebbe appartenuta a chi l’avesse coltivava, ben sapendo che essa apparteneva in realtà ai nativi americani. Così i coloni partivano, spesso in buona fede, con i carri, con le famiglie, con tutto quello che possedevano, arrivavano nei “territori indiani”, costruivano case, coltivavano i campi e succedeva spesso che gruppi di nativi della zona li aggredissero, li uccidessero perché si sentivano invasi e vedevano le proprie terre espropriate.

La strage di Wounded Knee

Questo rappresentava un eccezionale casus belli (dal latino “Evento o circostanza che provoca, o può offrire il pretesto per provocare, la guerra fra due stati“) che offriva all’esercito statunitense la scusa per poter intervenire, con l’appoggio unanime dell’opinione pubblica scioccata, per vendicare i coloni massacrati e salvare i sopravvissuti.

Così si ottenevano due risultati: da un lato l’operazione di pulizia etnica, di “bonifica” umana (il 29 dicembre 1890 a Wounded Knee, località del South Dakota nella zona delle Badlands, una piccola tribù di Sioux Lakota ormai arresasi, viene massacrata dai soldati dell’esercito americano. sancendo la fine delle guerre indiane e il genocidio di un intero popolo); dall’altro l’avanzamento del confine delle terre americane sottratte agli indiani sempre di più ad occidente fino a che l’intero continente nordamericano divenne di fatto proprietà dei bianchi.

Oggi non abbiamo difficoltà a chiamare i bianchi dell’epoca invasori e i pellerossa difensori della propria libertà, patrioti. Difficile vedere le giubbe blu che attaccano e distruggono interi villaggi indiani come espressione della giustizia, della civiltà, del bene. Quasi nessuno oserebbe descrivere quei nativi come dei terroristi.

Come ci giudicheranno i posteri?

Chissà quale opinione avranno i nostri posteri tra un secolo in merito ai fatti che insanguinano il Vicino Oriente dal 1947 (risoluzione ONU per la spartizione della Palestina) ad oggi. E chissà se i film che racconteranno della guerra arabo-israeliana, offriranno punti di vista differenti da quelli attuali e una visione delle cose diversa da come l’abbiamo in questi giorni.

“Il trattato di Versailles ha fabbricato tedeschi umiliati che hanno fabbricato Ebrei erranti che hanno fabbricato Palestinesi erranti che hanno fabbricato vedove erranti incinte dei vendicatori di domani”. ha scritto Daniel Pennac.