Nel brano odierno (Mc. 7, 1-23) Gesù invita tutti a riflettere sui criteri di una vera relazione con Dio, con sé stessi e con gli altri. Consideriamo il brano in due momenti: la domanda sulla tradizione degli antichi e presa di posizione di Gesù; Gesù chiama la folla e dona il principio fondamentale della vita di fede, offrendone la spiegazione ai discepoli.
“Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure, cioè, non lavate?” (v. 5). Prima di prendere cibo la tradizione giudaica esigeva che le mani fossero lavate, essendo il pasto un’azione sacra. Di per sé la legge biblica della purità rituale faceva obbligo ai soli sacerdoti di lavarsi le mani prima di mangiare le carni dei sacrifici offerti al Signore. L’uso aveva esteso tale norma anche ai laici nelle situazioni di vita quotidiana.
Coloro che sono venuti da Gerusalemme notano che i discepoli di Gesù prendono cibo con “mani impure”: alla lettera, con “mani comuni”, con mani che hanno fatto lavori ordinari, con le quali prima si erano toccate cose non sacre o addirittura impure secondo la legge rituale vigente. L’aggettivo “comune” era sinonimo di impuro sotto l’aspetto cultuale-legale.
La domanda posta a Gesù contiene l’espressione chiave “tradizione” ricevuta “dagli antichi”. Tale rimprovero non tocca un’usanza igienica, ma l’uso cultuale-levitico che mette in discussione la loro vita etica e religiosa. L’accusa è che i discepoli “non si comportano”, cioè “non camminano secondo” la tradizione degli antichi. Rimprovero mosso ai discepoli ai quali si fa colpa non solo di non lavarsi le mani prima dei pasti, ma più in generale di “trasgredire” la tradizione degli antichi. Così la discussione investe tutto un modo di vivere che prepara la presa di posizione di Gesù. La Tradizione giudaica era diventata di valore equivalente a quello della Scrittura.
Gesù risponde alla domanda con una profezia applicata alla situazione: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: ‘Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini’. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini” (vv. 6-8). L’aggettivo “ipocrita” descrive l’atteggiamento contraddittorio di chi con le parole dice una cosa e con i fatti un’altra; oppure di chi fa le cose solo per essere ammirato dagli altri. Gesù denuncia così l’incongruenza tra lo zelo per l’osservanza rituale dei vari precetti della tradizione e la mancanza di adesione interiore, elemento qualificante di ogni azione umana.
Già Isaia rimproverava ai suoi contemporanei di essere ribelli alla voce di Dio, richiamandoli a un culto come espressione dell’intimo: labbra, cuore e vita devono essere in sintonia con la fede vissuta, la vicinanza di Dio deve risiedere nel cuore e sgorgare da lì. Altrimenti non serve ripetere il culto come tradizione, senza diventare viva, personale, perché diventa “routine” e il culto rischia di diventare apparenza teatrale (ipocrita), che allontana da sé stessi, dagli altri e dal mistero del Dio biblico, che agisce e si rivela nella storia.
Gesù precisa loro che “lasciano da parte il comandamento di Dio, per osservare la tradizione degli uomini” (v. 8), indicando un loro costume che dura e tenta di fondersi con la tradizione degli uomini. Gesù disapprova la sovrapposizione della “interpretazione” della legge, appunto la tradizione umana, alla Legge stessa, attribuendo a entrambe il medesimo valore, talvolta anzi sostituendo l’interpretazione alla Legge con sotterfugi per eludere l’osservanza della Legge di Dio: “Voi annullate la parola di Dio con la tradizione che voi stessi vi siete tramandati” (v. 13).
“Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro” (vv. 14-15). Gesù in privato spiega ai discepoli ogni cosa delle sue parole dette in pubblico e chiarisce che i cibi che l’uomo ingerisce per il proprio sostentamento non possono essere causa di impurità morale, perché la loro influenza si esaurisce tutta nella sfera fisiologica di nutrire la persona, non raggiunge il cuore, ossia la coscienza.
“Dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive” (v. 21). Il cuore è la sede dei pensieri, della volontà, dei sentimenti, delle decisioni e delle scelte. Dal cuore escono i propositi di male: “impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza” (vv. 21-22). Ciò vuol dire che sempre azioni, pensieri e sentimenti hanno la loro radice malvagia all’interno, nel cuore della persona. Sono essi che rendono l’uomo impuro davanti a Dio e bisognoso di perdono e purificazione prima di incontrarlo, e non i cibi oppure gli oggetti che egli può toccare o mangiare, talvolta senza rendersene nemmeno conto.
Il Signore va dritto al problema del male e chiarisce quale sia il male veramente pericoloso. Quello da cui dobbiamo veramente guardarci è quanto proviene da noi, dal nostro cuore “cattivo”. Quello è il male insidioso perché oscura il nostro sguardo, indurisce e inquina il nostro cuore, indebolisce la nostra volontà. Quello è il male da combattere con tutte le nostre forze perché può rovinare la nostra esistenza. Rendici, Signore Gesù, attenti a quanto può deturpare, rovinare in modo stabile la vita nostra e quella degli altri. Rendici decisi non nel giudicare gli altri, ma nell’estirpare le erbacce del nostro animo.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Mazzeo, 2021; Laurita, 2021.
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