Daniele Fulli non è vittima dell’omofobia
Come il mondo della politica e dell’informazione strumentalizzano la morte
Sulla morte di Daniele Fulli si è fatta – e si continua a fare – molta confusione, come del resto accade quando il mondo della politica e quello dell’informazione sono lontani dalla realtà, e rimangono chiusi nel loro cerchio.
Da subito, si è parlato di “morte di un gay”, di omofobia, in un momento in cui il dibattito è aperto, con un decreto legge in attesa di approvazione (ddl Scalfarotto), e due parti politiche contrapposte: da una parte chi difende la famiglia tradizionale, dall’altra chi vuole proporre, invece, un nuovo modello di famiglia.
E in un momento così delicato, in cui due posizione contrapposte si trovano a fare i conti l’una con l’altra, è il caso che non si strumentalizzi una morte per rivendicare battaglie politiche – legittime – e vanti personali.
Daniele Fulli è stato infatti trasformato in una vittima dell’odio omofobo, in una vittima di un mondo brutto e cattivo, fatto di persone che se potessero li sterminerebbero tutti, questi omosessuali. Invece, Daniele Fulli era un parrucchiere di 28 anni, omosessuale, che – come capita a molte persone – ha avuto la sfortuna di incontrare la persona sbagliata nel momento sbagliato. Perché Andrea Troisio, anch'egli omosessuale, con il quale il 28enne malcapitato aveva iniziato a frequentarsi, era un vero border-line. Le Forze dell’Ordine lo conoscono per i suoi trascorsi con la droga, le cronache raccontano una personalità estrema e instabile, a prescindere da un orientamento sessuale che nessuno può permettersi di giudicare.
E Andrea Troisio, come molti altri uomini, ha rifiutato il partner in cerca di stabilità. Un uomo come Andrea, che di stabilità non ne ha nemmeno per sé.
Ma questo elemento deve essere passato inosservato, perché la stampa nazionale e certa parte politica hanno gridato allo scandalo, l’orrore di una morte che si è consumata in un mondo che questa omosessualità proprio non la accetta. E allora subito dichiarazioni, rimodulate all’occorrenza, ma tenute in cantiere – non si sa mai che un povero cristiano dovesse morire, ecco impacchettato il discorso da esibire a gran voce, una voce a tratti spezzata dalla commozione. E poi una sfilata, che quella è d’obbligo, per dire al mondo che l’Italia non è tutta marcia, che c’è anche chi agli omosessuali vuole bene, mica tutti in questo Paese vogliono farli fuori. E alla fine – immancabile – la proposta di intitolare al povero malcapitato una targa, in un parco. Perché la memoria deve sempre essere tenuta alta, e quando un domani andremo in quel parco e i nostri nipoti ci chiederanno chi era Daniele Fulli, noi, orgogliosi, potremo raccontare di come abbiamo contribuito ad espellere dall’Italia la parte marcia che gli omosessuali non li accetta.
E invece Daniele Fulli non è una vittima gay, né una vittima dell’omofobia. Daniele Fulli è solo una vittima. Un uomo sfortunato in vita, e ora da morto, come ogni persona morta, merita rispetto. Rispetto, che non risiede nella strumentalizzazione della sua morte per fini politici. Rispetto, che non è esibire un foglio con un discorso davanti ad una folla che il giorno dopo ha già dimenticato.
A tutti i morti italiani – ai morti della malasanità, ai morti strozzati da Equitalia, ai morti travolti da autisti ubriachi, ai morti ammazzati da mani di altri uomini – si rende onore solo con la giustizia. La politica, piuttosto, dovrebbe impegnarsi ad intraprendere un percorso in tal senso, e non pensare alle targhe nei parchi. Che ad onorare i vivi e i morti di questo Paese, c’è già un Tricolore.
E il mondo dell’informazione dovrebbe, piuttosto, mostrarsi critico nei confronti di certi eventi, e sollecitare la politica a cambiare rotta. O, in alternativa, i giornalisti dovrebbero limitarsi a fare ciò che gli è richiesto: il racconto nudo e crudo, la cronaca. Che senza giustizia – e senza rispetto -, una targa non vale nulla. Solo qualche titolone su un giornale, che finirà presto nel dimenticatoio. Insieme a Daniele Fulli, che per fortuna è morto prima di vedere la sua morte diventare una bandiera politica.