Dio: Padre di tenerezza e di misericordia
Gesù accoglie i peccatori
Nella liturgia della 24^ domenica del Tempo ordinario ascolteremo la lettura evangelica dell’intero capitolo 15 di Luca, dove l’evangelista riporta due parabole del tutto simili, costruite sullo stesso modello: una è la storia del pastore che ha perduto una pecora e l’altra è quella della donna che ha perduto una dramma; segue subito dopo la bella parabola del figliol prodigo, anch’essa divisa in due parti che descrivono il comportamento del padre prima nei confronti del figlio più giovane, e poi verso il figlio maggiore. Sono gli scribi e i farisei i destinatari dell’insegnamento. Le parabole sono un invito ai giusti perché si convertano dalla propria giustizia, che condanna, alla gioia del Padre, che giustifica. Gesù parla non tanto per difendersi dalle loro obiezioni, quanto per aprire i loro occhi al mistero di Dio, che è misericordia. Mentre il peccatore ne sente il bisogno, il giusto non la desidera.
La pecora perduta (Lc. 15, 3-7)
Il racconto comincia con il descrivere la condotta del pastore che, avendo costatato la sparizione di una delle sue pecore, va alla sua ricerca abbandonando tutte le altre; la seconda parte descrive la gioia che egli prova nel ritrovare questa pecora, vedendo in ciò il riverbero della gioia di Dio quando un peccatore si converte. In certe circostanze una pecora vale più di novantanove. Il cuore del Padre si volge tutto verso l’unico figlio che gli manca. La sua assenza è un dolore irreparabile: non basta la presenza di tutti gli altri. Non ha figli da buttare: Egli ha un amore totale per ogni singolo; la sua sofferenza per la perdita di uno solo, rivela a tutti il valore che ognuno ha ai suoi occhi di Padre.
In realtà, nel ministero di Gesù alcuni vengono avvantaggiati in modo anormale rispetto ad altri. Mostrandosi amico de pubblicani e peccatori, Gesù stupisce e scandalizza coloro che si considerano giusti e pensano che un uomo di Dio dovrebbe essere disponibile solo per le persone pie e non anche per dei malfattori. A coloro che criticavano la sua condotta Gesù risponde proponendo l’esempio del pastore che si preoccupa di più di una pecora in pericolo che di novantanove per le quali non ha niente da temere. Tuttavia, la condotta del pastore deve illustrare quella di Dio e non direttamente quella di Gesù. Quindi, c’è in queste parabole una identificazione concreta tra l’agire di Gesù e quello di Dio: in Gesù, è Dio stesso che cerca e salva ciò che è perduto.
La dramma perduta (Lc. 15, 8-10)
Il senso di questa parabola è identico a quello della prima. Essa vi aggiunge semplicemente una nuova immagine: in realtà si tratta di una “ripetizione”, da non sorvolare! La ripetitività fa parte della struttura dell’uomo, che vive nel tempo. La contemplazione è frutto di una continua ripetizione, attraverso la quale l’uomo scopre il valore della realtà. Se c’è una ripetizione nel Vangelo, guardiamoci bene dal sorvolarla come “doppione”: bisogna fermarsi il doppio, se si vuole procedere correttamente.
Prima era un uomo, figura del pastore di Israele. Ora è una donna, figura dell’amore materno di Dio. Dio mi è più madre di mia madre: è lui infatti che mi ha tessuto nel suo seno. Il fatto che siamo peccatori, ci rende oggetto di un amore più grande: ognuno di noi è prezioso ai suoi occhi, è degno di stima e del suo amore misericordioso. La donna perde la testa per ciò che ha perduto, e si mette a spazzare la casa con cura. Troverà il suo tesoro sotto tutta la spazzatura. Anche il Padre-Madre troverà il suo Figlio tra i malfattori sulla croce, fatto lui stesso peccato e maledizione per noi.
Il figlio perduto e ritrovato (Lc. 15, 11-32)
Per comprendere concretamente la portata della parabola del figlio perduto e ritrovato, definita dagli studiosi “il cuore del Vangelo”, ne vogliamo sottolineare il tratto più significativo, quello che fa risaltare per contrasto ciò che un figlio rappresenta per il padre. Ciascuno dei due figli si fa un’idea sbagliata a questo riguardo: la non conoscenza di Dio. “Se non ci fosse (Dio), bisognerebbe inventarlo, per tenere schiavi gli uomini” (Voltaire), “se ci fosse, bisognerebbe distruggerlo, per liberarli” (Bakunin). L’immagine di un Dio cattivo è una menzogna mortale, non lascia altra alternativa che la ribellione che fa morire o il servilismo che uccide: scompare solo con la tenerezza materna del Padre, come l’incubo cessa al risveglio, come la tenebra si dissolve alla prima luce.
Il più giovane immagina che la sua condotta non permetterà a suo padre di riconoscerlo per figlio, ma spera almeno di farsi riconoscere come “garzone”. A sua volta, il figlio maggiore si considera come un “servitore” del padre, un servitore mal retribuito. Si confronta con suo fratello: mentre lui non fa altro che lavorare nell’interesse del padre, l’altro, il più giovane, ha divorato il patrimonio del padre con le prostitute. La risposta del padre è un invito a superare il loro legame di tipo servile: al primogenito ricorda che la sua posizione non è quella di un domestico che attende un salario, ma quella del figlio al quale appartiene tutto come a suo padre. Inoltre, gli ricorda che il figlio minore è anche “tuo fratello”: se, come te, è mio figlio, è anche tuo fratello.
Questa parabola ha come intento primo quello di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia: scoperta gioiosa per il peccatore, è sconfitta mortale per il giusto. La parabola ha come centro la rivelazione del Padre, che ama perdutamente ogni figlio perduto. E’ una esortazione al maggiore, perché riconosca come fratello il minore. La situazione supposta da questo racconto è quella della difficoltà che certi contemporanei di Gesù provano nel considerare come fratelli gente la cui condotta sembra biasimevole, rifiutandosi di vedere in essi dei figli che Dio continua ad amare teneramente. In più, nel rimprovero che il padre rivolge ai suoi figli, si sottolinea l’incapacità di assumere un atteggiamento filiale verso Dio e di un atteggiamento fraterno verso coloro che essi disprezzano, dovuta ad una religiosità di tipo servile. Tuttavia, la parabola non si accontenta di denunciare la gravità di un difetto; essa indica anche come superarlo, invitando a condividere i sentimenti di Dio nei confronti dei peccatori, e la sua sollecitudine per coloro che vuole ritrovare e salvare.
Bibliografia consultata: Dupont, 1969; Fausti, 2011.