Il referendum del 1987 ha stabilito che le centrali nucleari non possono esistere sul territorio italiano. Quelle in funzione andavano dismesse e messi in sicurezza gli impianti e le scorie stoccate nei depositi. La Sogin se ne doveva occupare dal 1999 e ad oggi la situazione è la stessa di 24 anni fa. Ora si parla di un Deposito Nazionale e potrebbe capitare nella provincia di Viterbo.
Si torna sempre a parlare di nucleare in Italia. Quando è per chiudere le centrali, quando per riaprirle, quando per stabilire che fare delle scorie che comunque abbiamo accumulato sia dalle vecchie centrali che da altri impianti. Mentre si parla di energia pulita e si segnalano i passi avanti fatti nel campo delle energie sostenibili legate al fotovoltaico, al vento e a quelle idroelettriche, puntualmente c’è chi risolleva una questione chiusa e sepolta, per tentare di inserire il nucleare nei progetti energetici futuri del Paese. Si intuisce cosa possa esserci dietro la montagna di investimenti.
Mi ricorda, infatti, la storia del Ponte sullo Stretto. Una cosa che è fuori da ogni logica e da ogni vero interesse socio economico e sulla quale una parte politica insiste da anni, facendo perdere centinaia e centinaia di milioni allo Stato. Invece di destinare quelle risorse all’ammodernamento delle infrastrutture calabresi e siciliane, si dilapidano in un progetto assurdo.
Un ponte a campata unica che non esiste al mondo. Sarebbe il più lungo mai costruito con quella campata sospesa sul mare, con rischi enormi per la sua stabilità, legati ai venti, al traffico pesante che dovrebbe passare sul ponte, Tir e treni compresi, in un tratto di costa che è ritenuto soggetto a scosse telluriche di portata anche notevole. Ma torniamo alle scorie nucleari.
In una nota dell’Ansa del 13 dicembre scorso il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha pubblicato sul proprio sito l’elenco delle aree idonee per il deposito nazionale delle scorie nucleari, contenuto nella Carta Nazionale delle Aree Idonee (Cnai). La Carta è stata elaborata da Sogin e Isin e individua 51 locazioni possibili. I siti sono raggruppati in 5 zone ben precise, su 6 regioni. In Piemonte 5 siti nella provincia di Alessandria.
Nel Lazio ben 21 siti tutti nel viterbese. Precisamente a Montalto di Castro, Canino, Cellere, Ischia di Castro, Soriano nel Cimino, Vasanello, Vignanello, Corchiano, Gallese, Tarquinia, Tuscania, Arlena di Castro, Piansano, Tessennano. In Sardegna altri 8 siti fra Oristano e il sud dell’isola. Fra Puglia e Basilicata sono stati individuati 15 siti fra la provincia di Matera e i comuni di Altamura, Laterza e Gravina, e anche in provincia di Potenza a Genzano di Lucania. Infine in Sicilia nel trapanese con 2 aree a Calatafimi, Segesta e Trapani.
Nell’individuare le aree potenzialmente idonee, nel 2021 la Sogin aveva pubblicato una Carta con 67 aree, basandosi su 28 criteri di sicurezza fissati dall’Isin, Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare. Fra i criteri ci sono la lontananza da zone vulcaniche, sismiche, di faglia e a rischio dissesto e da insediamenti civili, industriali e militari. Sono escluse le aree naturali protette, quelle oltre i 700 metri sul livello del mare, a meno di 5 km dalla costa, con presenza di miniere e pozzi di petrolio o gas, di interesse agricolo, archeologico e storico.
E’ richiesta infine la disponibilità di infrastrutture di trasporto. Su questa prima lista di 67 siti, è stata aperta una consultazione pubblica con gli enti locali e i cittadini interessati. Al termine di questa, Sogin ha stilato la lista finale dei 51 siti idonei.
Andate a vedere sulla cartina le località indicate e ditemi se sono lontane da zone sismiche e vulcaniche. Tutto l’Appennino è zona sismica e abbiamo vulcani attivi, acquiescenti e spenti lungo tutta la dorsale, fino a oltre la Sicilia a poche decine di km da Trapani. Per la sua conformazione e la sua fragilità l’Italia non mi sembra adeguata a ospitare centrali nucleari. Punto. Se ne facciano una ragione Calenda, Renzi e Salvini. Se ne potrebbe riparlare forse quando le centrali a fusione fredda saranno disponibili. Per adesso sono una chimera secondo gli scienziati.
Nella Tuscia ci sono 21 aree individuate su 51 totali. Significherebbe distruggere l’economia turistica del viterbese e forse anche quella agro alimentare. Gli enti locali interessati annunciano battaglia per dire no. Inizialmente le zone potenziali erano di più. Le localizzazioni relative al Lazio sono tutte in provincia di Viterbo, 8 solo a Tuscania. Intanto potrebbe arrivare dal Piemonte la soluzione al problema della scelta del luogo dove costruire il centro di stoccaggio di scorie radioattive che nessuno vuole.
Il sindaco di Trino Vercellese, Daniele Pane, ha manifestato l’intenzione di proporre al consiglio comunale di mettere in sicurezza le scorie già presenti sul territorio ospitando la struttura di stoccaggio di scorie nucleari. Trino non rientra nell’elenco dei siti ritenuti ottimali, pur essendo già luogo di stoccaggio. Ora la legge consente anche al comune in provincia di Vercelli di candidarsi. È di sabato scorso il decreto legge 181.
La norma stabilisce che entro 30 giorni dalla pubblicazione dei siti idonei, oltre alle aree indicate nell’elenco con i requisiti di idoneità, anche gli enti i cui territori non sono stati ritenuti adeguati, come pure il Ministero della Difesa, per le strutture militari interessate, possono presentare la loro autocandidatura ad ospitare l’impianto di stoccaggio di rifiuti radioattivi. Le autorità competenti faranno in seguito le opportune verifiche. Il Deposito Nazionale si svilupperà su 150 ettari ed ospiterà 95.000 metri cubi di scorie a bassissima, bassa, media ed alta attività.
I 31.000 metri cubi di scorie nucleari sono concentrati e stoccati in una ventina di depositi che si trovano perlopiù in corrispondenza delle ex centrali nucleari e di alcuni reattori di ricerca dell’ENEA, in 8 regioni. Si tratta delle quattro centrali nucleari di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta), dell’impianto Fabbricazioni Nucleari di Bosco Marengo (Alessandria) e dei tre impianti di ricerca sul ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera).
Nel Lazio, secondo i dati raccolti nel Dossier “Rifiuti Radioattivi, ieri, oggi e domani” che Legambiente ha pubblica nel marzo 2021, ci sono 9.284,35 mc di rifiuti radioattivi, il 30% di tutti quelli presenti in Italia (31.027,30 totali). I rifiuti radioattivi sono stoccati in 2 siti: il deposito provvisorio della ex Centrale di Borgo Sabotino a Latina, dove c’è un volume di 1.794,44 mc di rifiuti radioattivi e un’attività radioattiva di 27.139,67 GBq e il centro ricerche Enea Casaccia a Roma dove ci sono 7.489,81 mc di rifiuti radiottivi e una radioattività di 28.091,43 GBq.
La radioattività totale nel Lazio sui 2 siti è di 55.231,1 GBq, il 2% del totale nazionale di 2.881.754,50 GBq. Pochi metri oltre il confine sud regionale c’è anche l’ex Centrale del Garigliano a Sessa Aurunca in Campania con 2.967,64 mc di scorie e 358.425,82 GBq di attività. Quindi nel Lazio ci sono già rifiuti radioattivi stoccati. Non sappiamo con che livello di sicurezza. Nel Deposito Nazionale saranno definitivamente smaltiti i rifiuti a molto bassa e bassa attività, ossia quelli che nell’arco di 300 anni raggiungeranno un livello di radioattività tale da non rappresentare più un rischio per l’uomo e per l’ambiente.
Roberto Sacchi , presidente di Legambiente Lazio ha dichiarato che “Individuare il sito più idoneo per realizzare il deposito, anche se questo fosse nel Lazio, vorrebbe dire conferire al meglio rifiuti che ancora vengono prodotti nel comparto medico-sanitario e chiudere definitivamente la triste storia del nucleare italiano, mettendo in massima sicurezza le scorie che per ora sono provvisoriamente depositate a nord di Roma come a Latina. La sindrome Nimby in questo caso è assurda, e dirsi eventualmente contrari al deposito come stiamo vedendo in queste ore, vuol dire far finta di non sapere che a Cesano e Borgo Sabotino c’è quasi un terzo della dimensione dei rifiuti radioattivi d’Italia”.
Cosa decideranno non è dato sapere. Nessuno vorrebbe le scorie, a parte Trino Vercellese, ma non a caso quella zona non era rientrate tra le località idonee, nonostante siano ben sei i criteri di esclusione che avevano determinato la sua non idoneità. Data la situazione del Governo attuale c’è da tremare alla sola idea dei criteri di scelta che prevarranno. Quel che mi pare certo è che la sicurezza dei cittadini è l’ultima cosa che verrà presa in considerazione.
Proprio nell’alleanza di Governo c’è chi spinge (Salvini) per un ritorno al nucleare, con l’appoggio di Calenda e Renzi (che è tutto dire), senza considerare i tempi di costruzione di una nuova centrale (10 anni minimo) i costi (15 miliardi ad oggi) e di nuovo il problema della sicurezza e delle scorie. Se non hanno risolto dove mettere le scorie delle centrali e dei centri che operano col nucleare dal 1990 ad oggi, voi capite in che mani siamo.
Lo sfruttamento dell’ energia nucleare in Italia ha avuto luogo tra il 1963 e il 1990. Dopo le centrali nucleari risultavano tutte chiuse o per raggiunti limiti d’età o alla luce del risultato del referendum. Negli anni 80 la sicurezza degli impianti nucleari divenne una preoccupazione crescente. A seguito di terremoti e inondazioni il pericolo che le scorie venissero a contatto con corsi d’acqua (come il fiume Po) e potessero inquinare il territorio fino al mare Adriatico, rendendolo un mare morto per parecchie migliaia di anni, suscitarono proteste e richieste di intervento.
Ma di fatto non è successo nulla. Poi tra il 1988 e il 1990, i governi Goria, De Mita e Andreotti 6° posero termine all’esperienza nucleare italiana, con l’abbandono del Progetto Unificato Nucleare e la chiusura delle tre centrali ancora funzionanti di Latina, Trino e Caorso. Quelle di Latina e di Trino erano già praticamente a fine vita ma da dismettere. L’unica centrale che venne effettivamente chiusa con grande anticipo sul ciclo previsto fu quella di Caorso, dopo meno di dieci anni. Gli impianti in costruzione e altri pianificati vennero interrotti e riciclati al termoelettrico.
Dal 1999 i siti delle centrali nucleari italiane sono di proprietà e gestiti da Sogin e, assieme agli altri complessi nucleari presenti sul territorio italiano, sono in fase di smantellamento. Una fase che dura da più di vent’anni.
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