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“Ecco l’agnello di Dio”

La seconda domenica del tempo ordinario ci proclama il brano del vangelo di Giovanni (1, 29-34) che corrisponde al racconto di Matteo del battesimo di Gesù, che abbiamo meditato la domenica passata in occasione della festa del Battesimo di Gesù. L’evangelista Giovanni riporta qui, non precisamente il battesimo di Gesù, ma la testimonianza del Precursore che seguì alla teofania (l’apparizione dello Spirito santo e l’ascolto della voce del Padre) avvenuta al momento del battesimo. La teofania costituì per il Battista il punto di partenza di una riflessione, di cui il nostro passo ci riferisce i frutti in occasione di un nuovo incontro (“il giorno dopo”) tra il messia e il suo precursore. Tutto il brano lascia quindi l’impressione di una meditazione che si svolge lentamente, liberamente, sulla base della comune tradizione evangelica, e che approfondisce il contenuto della teofania.

L’ Agnello di Dio (v. 29)
“Ecco l’ Agnello di Dio…”: che cosa significa un’affermazione del genere? Secondo l’interpretazione più probabile, tale titolo vuol mostrare in Gesù il “servo di Jahvé”, di cui parla il profeta Isaia nei suoi quattro canti su questa figura enigmatica. In essi il servo è paragonato ad un “agnello”, di cui viene sottolineata l’innocenza e l’umile accettazione davanti ad un trattamento crudele; il servo porta su di sé il peccato di molti per espiarlo con la sofferenza e con la morte. La designazione di Gesù come agnello di Dio che toglie il peccato del mondo significa che Gesù ha la missione di realizzare la figura del “servo” fin nelle sofferenze e nella morte espiatrice. Benché venga al battesimo di Giovanni innocente e puro riguardo ad ogni peccato, egli dovrà prendere su di sé il peccato di tutti, toglierlo espiandolo personalmente, assicurare col suo sacrificio redentore la purificazione dei peccati annunziata dalla predicazione del Battista e simboleggiata dal suo rito.

Il Messia preesistente (v. 30)
Nel vangelo di Giovanni, il Battista viene presentato soprattutto come il “testimone di Cristo”: non si limita più ad annunciare vicino il messia, ma lo mostra presente. “Dopo di me viene un uomo che è passato avanti a me, perché era prima di me” (v. 30). Secondo un antico pregiudizio, colui che viene dopo un altro è considerato meno degno del primo, perché non è l’iniziatore, anzi perché viene al seguito del primo in qualità di discepolo. Nel caso presente, invece, colui che viene dopo il Battista è stato riconosciuto superiore a lui: il paradosso si fonda sull’anteriorità eterna, sulla preesistenza divina di Cristo: “era prima di me”. Gli studiosi vi intravvedono una polemica peraltro nota. L’evangelista Giovanni deve opporsi con forza alle pretese sollevate al suo tempo dai seguaci ostinati del Battista. Costoro, per rivendicare la messianicità del loro maestro e negare quella di Gesù, ricorrevano all’argomento cronologico di cui sopra: Giovanni Battista, capofila, precedeva Cristo, dunque aveva la priorità. L’evangelista replica agli avversari ponendosi sul loro terreno: lo stesso precursore aveva confutato in anticipo i propri adepti troppo zelanti parlando della preesistenza del messia, che era ammessa da un buon numero di Giudei. La priorità del messia rispetto al precursore è quella che Giovanni esponeva solennemente all’inizio del suo vangelo: preesistenza eterna, ovvero, la condizione divina di Gesù.

La manifestazione battesimale (vv. 31-32)
Tutta la predicazione del Precursore consisteva nell’annunciare Cristo e tutta la sua attività di battezzatore aveva il solo scopo di concludersi con il battesimo particolare di Gesù, dove si sarebbe cominciato a svelare il mistero della persona del Salvatore. Tuttavia, lo stesso Giovanni Battista, che annunciava il messia imminente, ignorava che Gesù, suo parente prossimo, fosse proprio il messia. Con maggior ragione non lo conosceva davvero nel mistero della sua persona trascendente, ma aveva la certezza di ricevere una illuminazione chiarificatrice sulla persona del messia attraverso una teofania: “L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo” (v. 33). La venuta visibile dello Spirito gli avrebbe permesso di identificare in concreto l’Inviato di Dio, designando quest’ultimo nella sua attività futura ben superiore a quella del Battista. Il battesimo nello Spirito Santo di Gesù avrebbe portato un’abbondanza di effusione dello Spirito, promessa per la fine della storia.
Al battesimo di Cristo, Giovanni Battista ha riconosciuto il messia quando lo Spirito è disceso e si è fermato su Gesù, sottolineando la permanenza, il carattere definitivo del dono divino. Parlando del battesimo nello Spirito Santo, l’evangelista Giovanni pensa concretamente al battesimo sacramentale cristiano, senza peraltro insistervi, perché l’interesse è per colui che procura il dono dello Spirito.

Giovanni Battista il testimone (v. 34)
La testimonianza, nel quarto vangelo, implica anzitutto una conoscenza esperienziale, personale, di ciò che si è visto, udito o toccato. Essa nasce da un avvenimento storico, particolare, percettibile ancor prima della fede. Poi, questo fatto incontestabile serve da solido fondamento all’affermazione della fede, sorregge una verità più alta, superiore, che trascende la storia. Secondo un tema proprio di Giovanni, la vista conduce alla fede. Dunque, la testimonianza notifica un fatto storico e vuole suscitare la fede verso il Cristo, Figlio di Dio che è presente e agisce nella nostra carne e nella nostra storia. Il Battista ha visto lo Spirito discendere dal cielo e fermarsi su Gesù; egli può attestare il compimento delle Scritture a proposito del “servo di Dio”: Gesù è veramente il messia atteso, Figlio di Dio, dispensatore dello Spirito.

Bibliografia consultata: Jacquemin, 1971.

Redazione

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