Fake news. Il caso Raiola riapre il dibattito sulle false notizie e la disinformazione
Fake news: l’epidemia digitale continua a far vittime. Intervista ad Andrea Pranovi, giornalista ed esperto in fake news e disordini dell’informazione
Lo scorso 28 aprile veniva pubblicata dalle maggiori testate italiane, come il Corriere della Sera, La Repubblica e il Post, la notizia che il procuratore calcistico Mino Raiola era morto. Decesso smentito dopo un paio di ore.
Successivamente a intervenire sulla sua presunta morte è stato lo stesso Raiola, che in un post sul suo account Twitter scrive: “ Stato di salute attuale, per chi se lo chiede: incazzato. È la seconda volta che in 4 mesi mi uccidono. Sembrano in grado di risuscitarmi…”.
Infatti, il procuratore, al tempo, era ricoverato in grave condizioni all’ospedale San Raffaele. “È in una brutta situazione ma non è morto”, così affermava il suo braccio destro José Fortes Rodriguez.
Tuttavia, la storia non si conclude con un lieto fine. Due giorni dopo dalla smentita, la morte del procuratore viene pubblicata ufficialmente.
Fake news e disinformazione: il caso Raiola non è l’unico
Il caso Raiola non è da considerarsi il “pazienze zero” nell’epidemia di false notizie. Dunque, abbiamo approfondito il tema con il giornalista Andrea Pranovi, in quanto esperto e docente all’Università Niccolò Cusano di Information disorder and fake news.
“Fake news è una parola che da circa sei anni è entrata nel dibattito pubblico. Tuttavia, non è una parola che nasce da pochi anni. Lo stesso vale per post-verità che è stata utilizzata e coniata la prima volta nel 1992”. Dunque, “non parliamo di fenomeni nuovi”. Ma il maggiore interesse scaturito di recente è da attribuire a una caratteristica che distingue le fake news di oggi da quelle del passato: ossia la velocità con cui esse si diffondono.
Infatti, uno dei problemi maggiori delle false notizie attuali è senza dubbio la viralità. Questo, ovviamente, complica anche il lavoro di debunking, ossia il mistificare una fake news, poiché la sua “ribattuta” può non avere lo stesso impatto mediatico o scaturire lo stesso interesse. Un elemento da non sottovalutare, giacché il lavoro giornalistico deve fare i conti anche con la digitalizzazione e i nuovi processi che essa comporta.
Per capire appieno i fattori scatenanti che però hanno animato il dibattito sulle false notizie e la disinformazione negli ultimi anni bisogna fare un passo a ritroso. “Nel 2016 accadono due eventi importanti e inaspettati a livello mondiale: la vittoria di Donald Trump e la vittoria della Brexit al referendum in Regno Unito”. Ed “entrambe queste campagne elettorali sono state caratterizzate da un ampio ricorso a notizie false”.
Nonostante, come sottolinea Pranovi, “sarebbe azzardato” dire che entrambe le vittorie sono attribuibili soltanto alla disinformazione. Risulta “innegabile che le fake news hanno dato un contributo importante all’orientamento di alcuni elettori”.
Indubbiamente questo fa comprendere come il fenomeno non sia da considerarsi irrisorio. Non può essere trattato con irriverenza, ma deve essere studiato e analizzato fino in fondo per comprendere le sue modalità di sviluppo. E infine riuscire a combatterlo.
Fake news come sono e come si diffondono
Le Fake news, come afferma l’esperto Pranovi, possono essere divise in cinque macro categorie.
Esistono le fake news confuse, ossia quelle in cui si può verificare un mescolamento tra una situazione oggettiva e una soggettiva. Dove avviene un mix tra finzione e verità. Le errate che sono sbagliate o non totalmente esatte. “Queste notizie sono spesso attribuite all’incompetenza della fonte”. Solitamente, infatti, è la fonte stessa che commette un errore nel produrre una notizia.
La terza tipologia, invece, riguarda le cosiddette deformate. In questo caso le notizie vengono “in qualche modo modificate e amplificate a dismisura. A volte intenzionalmente a volte no”. Poi ci sono le notizie strumentalizzate. In questo caso esse “partono da un dato di fatto vero”. E soltanto successivamente “vengono strumentalizzate per fini che possono essere di carattere politico, commerciale o economico”. Infine, esistono anche le notizie ostili. “Esse hanno scopi intenzionali malevoli”. Avendo come finalità quella di “colpire e distruggere la reputazione di una persona, un’impresa o azienda, o un partito”.
La diversificazione delle fake news è utile anche al fine di capire le modalità in cui esse circolano. E la loro analisi ha portato anche a individuare gli ambiti in cui più frequentemente attecchiscono.
Tutti possono essere colpiti dal virus della disinformazione e delle false notizie. Dai più acculturati ai meno, dalla generazione Z ai cosiddetti boomer. Questo può essere esplicato anche all’interno del significato di post-verità. Difatti, con questo termine si vuole “indicare una situazione nella quale le convinzioni personali e gli appelli emotivi sono più influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ai fatti obiettivi”.
Proprio per questo motivo, gli ambiti in cui le false notizie sono maggiormente diffuse sono quelli “più vicini alla nostra vita: politica, salute, economia e alimentazione”. A primo acchito la salute e l’alimentazione “sono molto correlate tra di loro”, ma in realtà in esse le fake news hanno delle modalità differenti.
Con l’avvento dei social network e dei nuovi media, la diffusione e la loro proliferazione è da attribuire a molteplici cause. Uno dei fattori è sicuramente la velocità, ma un elemento determinante è anche la mole eccessiva di notizie che arrivano al fruitore. Un fenomeno conosciuto anche come infodemia. Questo ovviamente rende più difficile orientarsi e recepire correttamente l’informazione. Un effetto che Umberto Eco definiva decodifica aberrante, che avviene quando la comprensione del messaggio da parte del destinatario non corrisponde con le intenzioni comunicative del mittente.
Inoltre, un’altra problematica derivante dall’overload di informazione è sicuramente anche l’incapacità di verificare l’attendibilità della notizia. Infatti, in molti casi basterebbe quello che in gergo si definisce fact checking, ossia “la sacrosanta verifica delle fonti, che è sia un dovere etico che deontologico” nella professione giornalistica.