La libertà di culto è sacra. Una tautologia, certo, ma anche la cifra della nota diramata dalla Cei dopo l’ennesimo comizio a reti unificate del bi-Premier Giuseppe Conte. Un comunicato in cui l’episcopato italiano esprimeva tutta la propria perplessità e irritazione per i contenuti dell’ultimo Dpcm. Perché anche la pazienza dei cattolici ha un limite.
Domenica sera, l’ex Avvocato del popolo ha illustrato le misure del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che apre finalmente la fase 2. Un periodo che sarà contrassegnato dalla convivenza con il coronavirus, in cui sarà fondamentale mantenere lo stesso «comportamento responsabile» della fase 1.
Fin qui, ineccepibile. Anche se infatti i dati sono in costante miglioramento, l’Italia non è ancora uscita dalla pandemia. E, finché non avremo a disposizione una terapia e/o un vaccino, la curva del contagio potrebbe sempre risalire.
Poi, però, veniva la parte incriminata, quella riguardante le cerimonie religiose, per cui si confermava la sospensione. Con una sola eccezione: i funerali, per cui comunque si prevedeva una partecipazione massima di 15 persone. Non è dato sapere se l’eventuale sedicesima possa essere soppressa sul momento, onde poter risparmiare sulle esequie celebrandone due al prezzo di una.
Il Capo del Governo – o almeno Giuseppe 1 – ha fatto capire che tale provvedimento era stato caldeggiato dal Comitato tecnico-scientifico. Che infatti di lì a breve avrebbe ragliato a proposito di presunte «criticità ineliminabili» che però, guarda caso, permarrebbero quasi esclusivamente per la Santa Messa.
Alla faccia del Concordato e dell’articolo 19 della Costituzione, che tutela esplicitamente il «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa». Un diritto ripetutamente calpestato durante il lockdown, come nel vergognoso episodio in cui i carabinieri hanno interrotto una cerimonia funebre nel Cremonese. Ignorando peraltro che si tratta di un reato punibile, in base all’art. 405 del Codice penale, con la reclusione fino a 2 anni.
In quell’occasione, in modo ancora più indegno, la Diocesi di Cremona non trovò di meglio da fare che stigmatizzare il comportamento del parroco “ribelle”. Così come fece, del resto, il quotidiano dei Vescovi: a conferma di una genuflessione al potere temporale che ha radici fin troppo salde.
Quando è troppo, però, è troppo. E, se Giuseppi ha continuato a uscire dal seminato, la Conferenza Episcopale Italiana si è finalmente decisa a uscire dal seminario.
Se c’è un giudice a Berlino, ci può anche essere un porporato – anzi, più d’uno – nella Città del Vaticano. Ed era ora che rinfrancasse i fedeli sempre più sconcertati (non solo dalla vicenda contingente, ma non è questa la sede per approfondire la questione).
La Cei lo ha fatto con una nota dura fin dal titolo: Il disaccordo dei Vescovi. Un comunicato che si apriva ricordando le rassicurazioni del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese «per consentire il più ampio esercizio della libertà di culto». Sempre, naturalmente, nel pieno rispetto di tutte le norme sanitarie.
Eppure, nonostante settimane di negoziati, il Dpcm «esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo». Ed è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
«I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale». Dal momento che, con buona pace di qualche showman e delle sue cadute di stile, andare in chiesa non è affatto come pregare in bagno.
Poi la stoccata. «Alla presidenza del Consiglio e al Comitato tecnico-scientifico si richiama il dovere di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia». Che, tradotto dal clericalese, significa che la collaborazione va bene, ma essere presi per i fondelli no.
Tempo pochi minuti dal tanto auspicato sfoggio gonadico, ed è arrivata la prima reazione politica di sostegno al comunicato episcopale. Paradossalmente, però, era un tweet della renziana Elena Bonetti, Ministro per la Famiglia. Che ha scatenato una ridda di commenti sarcastici, volti a ricordarle il suo ruolo governativo: come quello, laconico, della deputata di FdI Carolina Varchi.
Neppure il sempre condiscendente Avvenire ha potuto esimersi dal deplorare la misura dell’esecutivo rosso-giallo. Definendola una «ferita incomprensibile e ingiustificabile», una vera sorgente di iniquità.
«Sarà molto difficile far capire perché, ovviamente in modo saggio e appropriato, si potrà tornare in fabbriche e in uffici, entrare in negozi piccoli e grandi di ogni tipo, andare in parchi e giardini e invece non si potrà partecipare alla Messa domenicale. Sarà difficile perché è una scelta miope e ingiusta. E i sacrifici si capiscono e si accettano, le ingiustizie no».
La replica più significativa, però, è arrivata da Palazzo Chigi – cioè da Giuseppe 2 – una volta capito di aver tirato troppo la corda. «La Presidenza del Consiglio prende atto della comunicazione della CEI e conferma quanto già anticipato in conferenza stampa dal Presidente Conte. Già nei prossimi giorni si studierà un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza».
Si vedrà. Intanto, è già positivo che i pastori abbiano abbandonato l’ecclesialmente corretto e ricondotto il BisConte sulla via della ragione. Per quella di Damasco, c’è sempre tempo.
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Meno male che c'è Francesco a rimettere in riga questa accolita di ottusi incoscienti che pretendono di fare i pastori del popolo (c'entra qualcosa l'immunità di gregge?)