Categorie: Cucina

Fritti d’Italia, il metodo di cottura più gustoso che conosciamo

Fritti d’Italia

Parlare di fritture, dal punto di vista nutrizionale, è sicuramente molto controverso ma, come tutto nell’alimentazione, se utilizzato con la giusta misura può rappresentare un piacere del  nostro palato fatto di tradizioni del nostro grande popolo italico. La frittura è una metodologia di cottura basata sull'immersione degli alimenti in un grasso bollente; il risultato è un piatto particolarmente appetitoso e calorico, che dev'essere consumato con parsimonia per non mettere in pericolo l'ottimale funzionalità del nostro organismo. Affinché il cibo sottoposto a frittura soddisfi il palato senza sovraccaricare troppo l'apparato digerente, è necessario osservare alcune semplici regole di preparazione legate esclusivamente alla temperatura per tipo di olio. Di fatto una corretta frittura la si ottiene quando il cibo è immerso in un bagno d'olio che, raggiunta una temperatura di 160-180°C, provoca l'evaporazione dell'acqua superficiale (da qui la formazione della famosa crosta dorata) e la cottura omogenea della parte interna dell'alimento.

Spesso si cade in alcuni errori che più o meno tutti compiono, e cioè, si tende a friggere in poco olio e con molto cibo per volta, magari congelato, il quale raffredda il bagno rallentando cosi il processo di cottura. In queste condizioni si provoca un maggiore assorbimento di olio da parte del cibo che stiamo per friggere. Per il tipo di olio tutti sostengo che il migliore sia quello che ha il punto di fumo piu alto, in tal senso tra gli oli non raffinati il punto di fumo più alto è registrato dall’olio extravergine d’oliva (210 gradi) che quindi, a mio avviso, è il più adatto per friggere, mentre i gettonati oli di semi di girasole o di mais hanno un punto di fumo molto basso (e non aggiungo altro!). Numerosi studi a riguardo hanno dimostrato un dato certo, l’olio di oliva, in generale, è il miglior grasso da frittura in assoluto per quanto riguarda sia gli aspetti nutrizionali che salutistici, anche se molti chef non sono d’accordo con questa teoria!
 

La storia delle friggitorie. Nascita dello street food del fritto

Lo street food del fritto ha origini molto antiche. Il primo prodotto da friggitoria fu il cecio. Gli arabi, dominatori della Sicilia a cavallo tra il 9° e l’11° secolo, avvezzi alla sperimentazione gastronomica, ne macinarono i semi, ricavandone una farina che mescolata all’acqua e cotta sul fuoco dava una sorta di impasto crudo, dal sapore non eccezionale. Ma una sfoglia sottile di questa pasta, cotta a sua volta in una sostanza oleosa, diede vita alla prima “panella”, una sorta di schiacciata di piccole dimensioni, di un bel colore dorato. L’evoluzione ha portato alla nascita di diverse friggitorie, ovviamente più evolute dal punto di vista della scelta gastronomica, che si sono localizzate in più parti delle città, divenendo un punto di riferimento per i clienti del “fast-food”.

Al tempo dei Romani, infatti, gran parte della popolazione consumava i pasti velocemente e in piedi nei locali semi-aperti adiacenti alla strada. Di queste strutture rimangono importanti vestigia a Pompei. Qui le taverne erano sia meta dei viaggiatori di passaggio sia luogo dove i poveri si facevano riscaldare le vivande in quanto non sempre disponevano di fornelli a casa loro. Oltre alle “cauponae” e alle “tabernae” dove i passanti compravano o consumavano bevande fresche o vino caldo, vi erano numerosi venditori ambulanti che offrivano pane, frittelle, salsicce, etc.

Le classi popolari urbane conoscevano il piacere di consumare a tavola solo il pasto serale. Come già avveniva nell’antica Roma, sia nel Medioevo che nell’Età Moderna, le classi urbane vivevano gran parte della giornata per strada, dove consumavano i loro pasti comprando prodotti in bottega o da venditori ambulanti. Le immagini ottocentesche degli scugnizzi napoletani che mangiavano con le mani per strada maccheroni o pizza, pasta o fritti (dolci o salati), frutta o verdura ci danno un’idea di come si svolgeva la vita nell’Ottocento.

All’epoca fino a inizi ‘900  si presentava con la carretta sulla quale era montata una baracca di legno chiusa da tre lati. Al suo interno erano posizionati: un fornello in pietra lavica sul quale una grande casseruola veniva utilizzata per la frittura, un ampio ripiano in cui si mostravano i prodotti già fritti contenuti in piatti di alluminio, un contenitore di latta (barattolo di conserva) con il coperchio bucherellato per il sale, usato in funzione della richiesta del cliente.

In un’angolo emergeva una piccola collinetta di pane e, appesi ad un gancio, i rettangoli di carta già tagliati a mo’ di tovagliolo. In tempi più recenti hanno fatto la loro apparizione le “motoape” e i furgoncini che, attrezzati di tutto punto, portano in giro il prodotto già pronto per essere cucinato a richiesta. Con lo sviluppo dell’industrializzazione e l’entrata delle donne nel mondo del lavoro extrafamiliare, il ceto popolare urbano si ingrossò e il fenomeno del cibarsi per strada aumentò.

Ma la stessa vita frenetica ed i cibi plastificati proposti dalle grandi industrie alimentari ci hanno reso degli inguaribili nostalgici.

Il consumatore oggi vuole gustare sapori antichi e genuini, fiutare odori che ci riportano indietro negli anni, a quando, piccoli, rimanevamo ore in cucina sollazzandoci tra profumi di torte fatte in casa o di sughi dalla pigra cottura. Pesce fritto pugliese e napoletano, piadina romagnola, focacce liguri, gnocchi fritti emiliani, arancine palermitane,supplì romani.

La cucina di strada in generale viola apertamente molte delle regole di “casa”. Il consumo diventa al tempo stesso un fatto privato (spesso si consuma da soli, contrariamente a quando si va al ristorante o al bar, accompagnati da amici o parenti), e un evento pubblico, perché avviene per strada o in locali aperti agli sguardi di tutti, quindi legato alla collettività.
Si è da soli e insieme nello stesso tempo, e ciò crea un’atmosfera di complicità tra gli avventori, per cui sovente si scambiano due parole, una battuta, perché la situazione induce un senso di confidenza non comune.     La cucina di strada oggi è anche un’arte della comunicazione.

In ultimo mi preme sottolineare che anche il fritto caratterizza tutta l’Italia per gusto e bontà derivante sempre dalla nostra antica tradizione e cultura culinaria. Sarò di parte nell’affermare che le bontà italiane sono uniche al mondo? Ai lettori l’ardua sentenza!

Ad ogni Regione il suo fritto

Mi permetto di citare le varie specialità a me più note ma in effetti in Italia c’è ovunque un fritto di tutto rispetto; vi parlerò, comunque, del fritto piemontese, il bolognese, il romano e il napoletano.

Fritto misto alla piemontese

È senza dubbio il fritto misto più rappresentativo dell’Italia settentrionale. Gli alimenti devono essere tutti impanati, eccetto nel caso in cui sia diversamente specificato. È composto da:
diversi tipi di carni: animelle, cervello, fegato, creste di gallo, crocchette di pollo, costolette di agnello;
diversi tipi di verdure (possibilmente di stagione): porcini, melanzane, zucchine, fiori di zucca in pastella, carciofi in pastella;
altro: semolino dolce, amaretti.

Fritto misto alla bolognese

È un fritto molto ricco, composto da:
diversi tipi di carni: cotolette di agnello o di pollo impanate, cervello e schienali dorati, animelle e fegato infarinati e aromatizzati con aglio e prezzemolo, crocchette di pollo;
diversi tipi di verdure: carciofi, cavolfiori e fiori di zucca in pastella soffice, zucchine infarinate;
altro: stecchi alla bolognese (minispiedini di mortadella, groviera e carne impanati), crema dolce (crema pasticcera soda tagliata a dadi e impanata).

Fritto misto alla romana

Il fritto tradizionale romano si compone dei seguenti ingredienti,
diversi tipi di carni: cotolette d’abbacchio impanate, fegato di vitello, cervello e animelle dorati;
diversi tipi di verdure e frutta: carciofi dorati, zucchine e salvia infarinate, cavolfiori e mele renette in pastella croccante, crocchette di patate;
altro: pan dorato (fette di pancarré bagnate nel latte, nella farina e nell’uovo) e i famosi supplì di riso di cui parlerò dettagliatamente qui di seguito.

Fritto misto alla napoletana

Il tradizionale fritto misto napoletano è composto da diversi tipi di carni:

animelle, cervello e schienali dorati, fette di fegato impanato;
diversi tipi di verdure e frutta: verdure di stagione dorate (tranne le zucchine e i peperoni che vengono infarinati e le melanzane che devono essere impanate);
altro: pizza fritta (fatta con la stesso impasto della pizza, ma chiaramente fritta nell’olio), mozzarelle in carrozza, panzerotti (crocchette di patate con fiordilatte e salame napoletano all’interno).

Fritto misto di mare napoletano

Crostacei e molluschi sono gli elementi portanti del fritto misto di mare, al punto che spesso costituiscono gli unici componenti di questo piatto.
Un importante fritto misto deve essere composto da almeno cinque o sei varietà di pesce.
Una combinazione varia e di media complessità può essere la seguente, che viene di norma così realizzato:
filetto di triglia impanato con pane aromatizzato al rosmarino;
julienne di seppia in farina di mais;
capasanta in pastella soffice alla birra;
gamberi avvolti con capelli d’angelo cosiddetto Gambero incatenato;
latterini e calamaretti infarinati.
Il fritto di mare viene accompagnando con spicchi di limone.

Il re della frittura romana: Sua maesta il Supplì

La generazione dei  romani “d.o.c.”  ci insegna una prima grande verità sul supplì cosiddetto “al telefono” nel senso dell’accezione “romanesca”  “ deve fa er telefono se voi sapè s’è bono” e per me che vengo da una altra regione non mi era affatto chiaro, poi ho capito che il fiordilatte deve filare tra le due metà spezzate facendo il verso non certo ai moderni telefoni cellulari ma ai primordiali telefoni a filo e cornetta.

Ed è cosi che, appunto si riconosce un “primo punteggio” di un  supplì buono. A Roma il supplì è un’istituzione da non confondere mai con gli arancini siciliani (buonissimi anche loro) . È una polpetta di riso di forma allungata con ragù di carne con il pomodoro, impanata due volte e (possibilmente) fritta nello strutto, altrimenti nell’olio di oliva. La parola deriva probabilmente dal francese surprise e la sorpresa è proprio il suo ripieno, il fiordilatte filante. La prima testimonianza scritta della presenza del supplì è del 1874: nel menu della Trattoria della Lepre a Roma compaiono con il nome di soplis di riso.

La prima ricetta viene scritta da Ada Boni nel libro Cucina Romana (1929): le polpette di riso sono chiamate al femminile, le supplì. Nella sua versione il riso può essere condito con un sugo finto (senza carne, solo odori) e il ripieno prevede regaglie (interiora di pollo), funghi secchi e carne in umido tritata e chiaramente con il fiordilatte al centro. Il supplì è un piatto che a Roma arriva intorno alla restaurazione, dopo l’occupazione napoleonica, ed è probabilmente la variante meno complessa del sartù di riso napoletano, con cui condivide l’impanatura (il soprabito: sartus, appunto), la crosticina e il ragù. L’arte culinaria del supplì è nel mescolare la croccantezza, il dolce, una punta di acidità: la gamma di sapori porta alla dipendenza e mangiarne uno non basta, si continuerebbe all’infinito. Nel luglio 1914 sulla rivista Noi e Il Mondo uscì il risultato di un’indagine secondo la quale, in appena 2 mesi e mezzo, i romani mangiavano tanti supplì da formarne uno grande e alto quanto la Colonna Traiana.

Inizialmente il venditore di supplì girava per strada la sera per i vicoli di Roma con uno scaldavivande o caldara colma d’olio strillando: “Calli bollenti! Supplì di riso!” e si metteva in qualche angolo nelle piazze, durante le fiere, le corse o il mercato; spesso ci abbinava il baccalà in pastella o le mele. Ora è facile trovarlo in tutte le pizzerie e nelle varianti più incredibili compare anche nei menu di una serie di ristoranti di buona levatura, ma è rimasto sempre uno street food, da mangiare con le mani e possibilmente per strada, in compagnia degli amici.

La ricetta

Parlando di fritture mi sembra fare cosa gradita al lettore le varie ricette di pastelle adatte per tipi di alimenti, credo infatti che per una ‘frittura’ gustosa il segreto è sicuramente questo.

Pastella alle erbe
Sbatti 3 uova con 125 g di farina, sale e pepe, 2 cucchiai di erbe aromatiche miste tritate (timo, maggiorana, salvia e rosmarino) e 2 di olio di oliva. Unisci 1,5 dl di vino bianco secco e passa il composto al setaccio per eliminare eventuali grumi. Lascia riposare la pastella per un’ora prima di usarla. I piatti consigliati per questo tipo di pastella sono le verdure ed il pesce.

Pastella alla birra
Mescola 200 g di farina in una ciotola con un pizzico di sale, una macinata di pepe e 2 albumi. Lavora il composto unendo un po’ alla volta 2,5 dl di birra chiara ricordandoti di non smettere mai di mescolare. Passa la pastella al setaccio per eliminate eventuali grumi e lascia riposare per almeno un’ora prima di usarla. Perfetta per verdure e carne.

Pastella al latte
Sguscia 2 uova e separa i tuorli dagli albumi. Frulla 125 g di farina con un pizzico di sale e uno di bicarbonato, 2 tuorli, 3 cucchiai di olio e 2 dl di latte. Lascia riposare la pastella per un’ora a temperatura ambiente e passa al setaccio. Prima di usarla incorpora delicatamente gli albumi montati a neve con un pizzico di sale e poche gocce di succo di limone. Perfetta per pesce e verdura.

Pastella rustica
Mescola 125 g di farina di ceci in una ciotola con un pizzico di cannella, cumino, noce moscata e chiodi di garofano in polvere, 2 cucchiai di olio, mezzo cucchiaino di lievito per torte salate ed il sale. Stempera il mix con 2 dl di acqua sbattendo con una frusta e passalo al setaccio. Copri e fai riposare per almeno 30 minuti. Una pastella così saporita è ideale per i crostacei.

Pastella al lievito
Metti 200 g di farina in una ciotola, unisci un cucchiaino di lievito di birra liofilizzato, mezzo di zucchero, 3 cucchiai di olio e un pizzico di sale. Mescola bene e, sbattendo con la frusta, versa 2,5 dl di acqua tiepida. Copri e lascia riposare per un’ora. Unisci due album montati a neve con un pizzico di sale. Ideale per i classici fiori di zucca e di zucchine ma anche per le foglie di erbe aromatiche.

Buon appetito !

Domenico di Catania

Food consultant

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Domenico Di Catania

Da 25 anni è consulente di direzione e organizzazione aziendale e si occupa di contratti di rete aziendali. Da circa 10 anni, per sua grande passione, si interessa di start up e consulenza globale per le aziende nel campo del "food". E' esperto di materie prime. Scrive articoli di enogastronomia e di economia.

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