Fulvio Abbate, uno scrittore anticonformista
Letteratura, vita, morte, P2 e Hilter: intervista allo scrittore autocandidato al Premio Strega 2014
“Intanto anche Dicembre è passato” (ed. Baldini & Castoldi) è l’ultimo romanzo di Fulvio Abbate.
Romanzo autobiografico (“D’altra parte gli scrittori – ci dice Abbate – raccontano sempre della propria infanzia e adolescenza, è un tema fisso”), ambientato nell’affollata casa palermitana d’inizio anni Sessanta, scrupolosamente tinteggiata da un infaticabile imbianchino, tale Adolf Hitler, che nel libro viene ucciso dalla mafia, poiché ha insidiato Lucilla, cognata di un mafioso. La stessa casa in cui si svolgevano le odiate ripetizione di matematica impartite dal prof. Ettore Maiorana, e si programmava quel fantastico viaggio familiare a Parigi, con la promessa strappata alla madre Gemma di conoscere finalmente Camus, morto già da qualche anno.
“Intanto anche Dicembre è passato inizia con un passo allegro e trasognato che poi si fa dolente, ma sempre ricacciando indietro le lacrime” – racconta Fulvio, riferendosi all’ultima immagine data ai lettori, quella della fine e della perdita: la cremazione di Gemma, madre di Fulvio Abbate, nella vita e nel libro. Madre che Abbate descrive come una “bugiarda assoluta”, ma convinta: “Mi diceva che saremmo andati a conoscere Camus a Parigi, ma Camus era morto. Però lei era convinta fosse vivo”.
“Morte ed infanzia sono temi da sempre affrontati nella letteratura – dice Abbate – Ho atteso morisse mia madre, ultimo tassello che mi separava dal fare i conti con queste realtà. Credo sia un romanzo maturo”.
Anche per questo, “Intanto anche Dicembre è passato” è stato definito un libro capace di trasformare il lutto in incanto.
Fulvio Abbate è uno scrittore molto fecondo, dal ‘90 ad oggi ha pubblicato diciassette libri e scrive dall’età di quattordici anni. Come tutti gli scrittori è un comunicatore, e quando si ha qualcosa da dire è necessario che dall’altra parte ci sia qualcuno ad ascoltare. Purtroppo lo scrittore di oggi si ritrova a fare i conti con un pubblico sempre più sottile e sordo, perché come lui stesso ironicamente sostiene: “Sempre meno persone leggono, anche i giornali. In Italia, a leggere, sono soprattutto le professoresse, quelle che privilegiano i romanzi classici, storie familiari dal gusto ottocentesco”.
“Anche i giovani leggono poco – spiega ancora – e quando lo fanno, privilegiano la narrativa di tendenza. Il caso di Zero Calcare è esemplare”.
E se da un lato lo scrittore d’oggi deve fare i conti con un drastico calo d’interesse da parte del pubblico, dall’altro, anche i rapporti con le case editrici non sono facili, perché manca il coraggio di puntare sul talento, come avviene un po’ dappertutto: “Il capitale economico vale più di quello delle idee purtroppo, ed un autore perché sbocci deve avere un editore che gli dia fiducia e gli consenta di pubblicare un certo numero di romanzi, come accadde per la Maraini con la Bompiani” – ci spiega Abbate.
“E poi, non bisogna mai pagare per pubblicare. È l’editore che deve credere nell’artista che sta sponsorizzando. Il problema è che gli editori tendono a pretendere un prodotto omologato. Si cerca di dare a tutti i testi un unico impianto”.
A questo proposito, Limonov, in un racconto spiega del suo rapporto con gli editori, definite “strane creature”. Aveva scritto un romanzo su un maniaco sessuale, Limonov, e la sua editrice aveva tagliato tutte le parti in cui si raccontava la psiche del personaggio. “Nel suo manoscritto ci sono troppe scene di sesso”, incalzava l’editrice. “Ma è un romanzo su un maniaco sessuale!”, ribatteva Limonov. L’editor rischia anche di censurare, quindi? “Sì, a volte sì – ci spiega Abbate – E poi se parliamo di Limonov bisogna tenere presente che parliamo di un caso straordinario e unico che va difeso per quello che è”.
“Purtroppo le grandi case editrici devono pubblicare un certo numero di romanzi l’anno. Il loro interesse è che uno di questi vada bene, gli altri non vengono seguiti con cura. Uno scrittore può pensare che sia bello che proprio la Mondadori abbia deciso di pubblicare un suo scritto, poi però scopre che il suo libro non viene curato. A volte non c’è nemmeno un ufficio stampa ad occuparsene”.
Logiche di mercato e primato degli utili sulle capacità mal si combinano con quella che secondo lo scrittore è la natura anticonformista dell’artista, “quando Bukowski viene assunto da una casa editrice e si ritrova a svolgere un ruolo quasi impiegatizio, lui fa palle di carta e le tira ai vicini di scrivania” – ci racconta Fulvio.
Ma forse – gli domandiamo pensando proprio a Bukowski, a Kafka, a Proust e agli altri miti letterari riscoperti postumi – quella del genio è una tara ereditaria? Non c’è verso che venga capito ed apprezzato?
“Il genio spesso commette l’errore di anticipare troppo i tempi, perciò non viene capito” – risponde Abbate. E in effetti, altrimenti, che genio sarebbe? Ma è possibile che alla genialità dell’artista non corrisponda mai quella di chi, di mestiere, dovrebbe proprio saper scoprire il talento? “Negli anni ’10 in pochi avrebbero scommesso su Picasso. Anche l’orinatoio di Duchamp è stato distrutto e quelle che vengono esposte nei musei sono delle repliche” – osserva Abbate.
“E’ importante – sottolinea – che l’artista mantenga la sua autonomia, che non si faccia omologare. Noi siamo artisti e abbiamo il dovere di essere sovversivi, anche se oggi si ritiene che questa sia una posizione desueta”.
Certo è che da quest’anno un tentativo di rilancio della lettura c’è stato, ed è passato attraverso un format televisivo decisamente mainstream: il talent show. Allora cosa ne pensa Abbate di questo tentativo? Come giudica Masterpiece?
“Se vogliamo fare un reality sulla masturbazione va benissimo, ma il tempo narrativo non è sincronico, ma diacronico, impone le lunghe distanze e non si presta per natura alle rapide dinamiche di un talent” – osserva dissacrante Fulvio – Non è possibile percepire un talento di quel tipo, con quel mezzo”.
Abbate è un’artista, lo si evince dall’estro della sua narrativa, da come parla ed anche da come ha deciso di provocare certa ‘intellighenzia’, quella che lui definisce “la P2 della sinistra”, autocandidandosi al premio Strega perché “nelle ultime tre edizioni è sempre stato vinto da Veltroni per interposta persona, mi riferisco a Riccarelli, Veronesi e Nesi” – ci rivela Abbate. “Magari sono anche autori straordinari, ma per l’eterno li assoceremo allo sponsor politico di Veltroni – prosegue – E’ inaccettabile il monopolio della cultura, bisogna dare a tutti le stesse opportunità. Perché ad esempio – si chiede – da Fazio vanno sempre i soliti autori a presentare i propri libri?”. Oppure, “perché certe trasmissioni di Rai3 sono sempre consegnate a persone dello stesso giro? Come mai hanno permesso a Lia Celi di fare una trasmissione terrificante (“Celi, mio marito!”, ndr) e nello stesso tempo sono state bocciate altri format?”.
Le maglie del monopolio culturale di cui parla Fulvio, strette per un autore con la sua formazione, si fanno progressivamente impenetrabili per quanti sono figli del pensiero e delle cultura di destra. Eppure, Rizzoli nel 2011 ha pubblicato “Nessun Dolore”, il romanzo di CasaPound, scritto da Domenico Di Tullio. Qualcosa sta cambiando?
“Una rondine non fa primavera – osserva Abbate – Mi sono accorto che esistono espressioni intellettualmente vivaci a destra, come “Il Fondo” di Miro Renzaglia e tante altre personalità vitali che riescono a resistere e sopravvivere grazie alla rete”. Tutte realtà che rispondono al cosiddetto pensiero non conforme.
Perché il web, nonostante le sue mille contraddizioni, da questo punto di vista è uno strumento formidabile, come osserva Fulvio: “Mi sono reso conto negli ultimi anni di come sia cambiata la comunicazione e dell’importanza del web in relazione al mio mestiere. Prima si aspettava il cartaceo, ora la rete apre degli spazi notevoli”, che mettono in discussione il monopolio della carta stampata e delle lobbies culturali”.
Ci fa un esempio: “Nel 2011 ho pubblicato un libro su Pasolini. In questi 3 anni, ho capito la fondamentale importanza delle recensioni sul web. Un tempo si pensava che essere recensiti dal Corriere della Sera fosse sintomo di successo, ora non più”.
Allora, Fulvio, lo possiamo dire che un’intervista al Quotidiano del Lazio è molto meglio di un’intervista al Corriere della Sera?
“Senz’altro sì” – ride.