La recente crisi politico-diplomatico-militare che si è concretizzata in fatti clamorosi come: a) la distruzione, mediante un diabolico drone di ultima generazione che pare non abbia lasciato sul campo neppure un solo sopravvissuto, del convoglio del generale iraniano Sulejmanì in trasferta politica in Iraq per rinsaldare l’alleanza della componente sciita maggioritaria nel paese con la politica iraniana antiamericana ed antisaudita; b) la conseguente rappresaglia cautamente -e sorprendentemente- preannunciata dal governo di Teheran per non mietere vittime e quindi non incrementare una pericolosa spirale di controritorsioni americane sicuramente vincenti almeno nel breve periodo, e per offrire demagogicamente al popolo iraniano una presunta riuscita contromossa coraggiosa, in realtà più simbolica che effettiva; c) la polarizzazione aggressiva di forze contrapposte in Libia: con Russia ed Egitto in appoggio al governo secessionista di Bengasi e alle truppe del generale Haftar recentemente riuscite -pare- ad occupare la città di Sirte, mentre assai accortamente -dal suo punto di vista- il presidente turco Erdogan ha deciso di accorrere personalmente a Tripoli per assicurare la sua protezione politico-militare al governo guidato da Sarraj e legittimato dall’ONU.
L’insieme di questi episodi assai inquietanti e pregiudizievoli per la pace e la stabilità internazionale richiede una spiegazione che vada al di là del semplice succedersi apparente degli eventi e faccia comprendere le problematiche di lungo periodo, destinate ad essere definite ormai “secolari”, che costituiscono i fattori di fondo dell’attuale crisi localizzata nel vasto poligono geo-politico che ai suoi estremi comprende Tripoli, Ankara, Teheran e Er Riad, coinvolgendo altresì tutti i paesi collocati internamente al poligono in questione.
Prendiamo in esame la posizione politica più rilevante, sia per la sua durata quasi secolare, sia per lo status di potenza che mette in gioco, sia per la vastità degli interessi politico-economici che sottende: la posizione degli Stati Uniti. Quasi autosufficienti nell’approvvigionamento petrolifero ma in grado attraverso le loro “sette sorelle”, le grandi società multinazionali, di predominare nella produzione e nello smercio internazionale del petrolio, gli Stati Uniti non hanno mai gradito e continuano a non gradire qualsiasi situazione politica tale da mettere a repentaglio questa loro egemonia economica. Sicuramente coinvolti nell’attentato mortale ad Enrico Mattei, tuttavia per pura miracolosa congiunzione di casualità e -una buona volta- di decise politiche dei governi italiani succedutisi negli anni ’60, non sono però riusciti ad evitare la concorrenza di una crescente multinazionale petrolifera italiana come l’ENI. Ma questa parziale temporanea sconfitta ha più che mai rafforzato la reattività degli Americani contro qualsiasi nuovo fattore di indebolimento della loro supremazia nel campo energetico.
Ebbene, questa posizione di lungo periodo spiega quasi linearmente i motivi del loro smaccato privilegiamento di un alleato civilmente retrogrado ma ricco e potente come l’Arabia Saudita (la più vasta e produttiva regione petrolifera del pianeta) ritenuto e in notevole misura verificato come regime di blindata continuità conservatrice, dall’improbabilissima e praticamente impossibile apertura verso nuovi fenomeni industriali come l’ENI e reso complice ultrainteressato -e ben gratificato, come pure gli altri paesi arabi della penisola arabica, Yemen escluso- della posizione politica statunitense. Correlativamente, qualsivoglia evento o processo politico attualmente o potenzialmente temuto in quanto fattore di turbamento dell’egemonia di mercato saudita-americana ha determinato e continua a determinare reazioni drastiche e scatenamento di sporchi affari corruttivi da parte dei collaboratori occulti del governo americano.
In casi estremi si ricorre ad atti intimidatori o di guerra, in forma diretta o delegata ad alleati di fiducia (Israele e Arabia). Sarebbe da ingenui ritenere che i risultati di successo nei confronti di Al Qaeda e dell’ISIS sostenuti dagli U.S.A. siano stati motivati solo da elevate mire di democrazia, di rifiuto dell’oscurantismo religioso e di giustizia per gli innocenti perseguitati e la loro libera coscienza. Le vere motivazioni sono quelle sopra accennate. Tanto è vero che la politica oppressiva del governo di Ankara verso la minoranza curda non ha assolutamente comportato uno schieramento a favore di quest’ultima. Andando più indietro nel tempo, gli U.S.A. a suo tempo aiutarono fattivamente l’instaurarsi in Afghanistan dell’immondo, disumano e trogloditico regime dei Talebani fondamentalisti pur di liquidare il precario regime-fantoccio filosovietico di Najibullah. Accertata tardivamente l’inaffidabilità anche del regime talebano, l’America non ha esitato ad armare un vittoriosa rivolta antitalebana che però non ha ottenuto tutti i risultati sperati e ha determinato l’attuale stato di debolezza, “poliarchie a variabile connotazione territoriale” e un perenne clima da guerra civile.
Concedere spazi di autonomia politica e di iniziativa internazionale potenzialmente innovativa o, al limite, rivoluzionaria e nuclearmente armata come quella confusamente e demagogicamente perseguita dal regime teocratico iraniano, con immediati contagi ad un altro grande paese come l’Iraq, non sarà mai consentito dagli Americani, a qualsiasi costo, data anche l’odierna certezza di una loro superiorità tecnologico-militare praticamente incontrastabile.
Una doverosa osservazione incidentale. I recenti improvvisi mutamenti o addirittura rovesciamenti di opinione del presidente Trump sull’Iran, su altri paesi e altre strategie, compresi i continui oscillamenti di posizione sulla questione dei dazi tra U.S.A. e Cina come su U.S.A. e Paesi europei, danno ovvio spazio a sospetti di personale conflitto di interessi. Dato che ogni presa di posizione dei presidenti U.S.A. da che mondo è mondo causa immediati effetti al rialzo o al ribasso sui titoli di Borsa, come sottrarsi alla ineliminabile impressione che lo stesso Presidente e i suoi amici non profittino di tali effetti da loro stessi determinabili?
Su questa condizionante situazione di sfondo si sono recentemente innestate nuove dinamiche conflittuali mosse dall’esigenza di grandi paesi come la Russia e la Turchia per assicurarsi in implacabile concorrenza reciproca e implicita contestazione dello strapotere americano una posizione di risalto nella gestione delle risorse energetiche, con particolare riferimento ai gasdotti e oleodotti -nonché trasporti navali di “rigassificazione”- provenienti da territori dell’Asia occidentale e, sull’opposto versante geografico, dalla Libia. L’Iran ovviamente cerca con ogni possibile strategia, propaganda, iniziativa e “bluff” di non subire passivamente il corso degli eventi e di trovare un suo spazio di potere e di attivo intervento almeno nella sub-area geopolitica ed economica del Golfo Persico.
A fronte di queste vitali esigenze economiche e politiche di potenti paesi extraeuropei aventi comunque un’attuale e futura pesante influenza sull’approvvigionamento energetico, ma anche sul livello dei prezzi e sull’economia complessiva dell’Europa, quest’ultima ha svolto un ruolo talora follemente autolesivo, come si è rivelato l’intervento armato che nel 2011 liquidò Gheddafi e il suo regime senza però prevedere alcunché nella fase successiva, che ha visto precipitare il paese in una disordinata anarchia di bande tribali e milizie di parte (ex-ISIS compreso) e nella divisione di fatto dello stato tra due regimi vicendevolmente ostili. L’UE con i suoi responsabili di politica estera sostanzialmente impotenti e mediante confuse e scoordinate iniziative di singoli ministri degli affari esteri di paesi membri, oggettivamente assai poco in grado di farsi autorevolmente ascoltare, non solo non ha minimamente modificato il quadro geopolitico sopra delineato, ma rivelando subdole concorrenzialità economiche, radicalmente negatrici dello spirito ispiratore dell’Europa Unita, tra paesi come Italia, Francia e Germania, ha suscitato solo reazioni allarmate e di rigetto praticamente in tutti i governi extraeuropei con cui si è avuta una qualche interlocuzione.
Inoltre -quanto segue non è dettato da alcuna pregiudiziale posizione ideologica ostile– il governo “Conte I” a composizione salviniano-grillina ha dimostrato l’assoluta inattitudine, anzi inettitudine ad interessarsi di problematiche estere fatalmente assenti dalla storia e dai programmi politici dei due movimenti alleati. Velleitarie e controverse misure di governo e di legge finalizzate a drammatizzare demagogicamente solo istanze interne al paese, con soluzioni tutte da verificare nella loro finora dubbia efficacia risolutiva, hanno fatto perdere tempo prezioso, che il governo “Conte II” ha cercato di recuperare con iniziative già criticabili in partenza per la loro evidente, sovradimensionata e rischiosa “voglia di strafare” come l’avventato e avventuroso tentativo di mediare tra le posizioni di Sarraj e Haftar, attuato maldestramente pochi giorni fa. Giustamente Sarraj ha declinato l’offerta, che secondo logica diplomatica e buon senso doveva vedere lui, legittimato dall’ONU, invitato per primo. Il risultato della vicenda si è quindi manifestato come inevitabile fattore di futura diffidenza del presidente tripolitano verso le iniziativa politiche italiane e -ancora una volta- come segno eloquente del pressappochismo e dilettantismo già planetariamente noto dei nostri governi ma ulteriormente confermato ed aggravato da aspiranti statisti magari ben intenzionati ma non politicamente ben formati né tanto meno “navigati” da evitare quanto meno errori banali.
A ciò si aggiunga la sistematica diseducazione dell’elettorato, in questi ultimi anni tempestato da propagande strumentali che purtroppo hanno avuto forte presa e diffusione. Chi non capisce che l’UE va rafforzata istituzionalmente e diplomaticamente attraverso una più stretta cooperazione e concentrazione di potere sovranazionale e non beceramente contestata sulla base di una presunta contrarietà agli interessi dell’Italia (solo in parte insignificante reali e condivisibili, ma di bassissima rilevanza e basso profilo come le “quote latte” o la misura minima delle vongole), andrà incontro ad un infausto destino di marginalità e soggezione del nostro Paese rispetto a temibili potenze economiche e politiche operanti nello stesso continente europeo ma ancor più nell’ambito della globalizzazione mondiale. Italia da sola contro America, Russia, Cina (e l’elenco è incompleto)?
*Articolo curato da Gaetano Arezzo.
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