Il vangelo di Giovanni (2, 13-25) è l’unico a riportare l’episodio della contestazione nei confronti del tempio da parte di Gesù all’inizio della sua attività pubblica invece che alla fine. L’episodio, come negli altri tre vangeli, viene contestualizzato nell’imminenza della Pasqua: “Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme” (v. 13). Questa è la prima Pasqua delle tre, corrispondenti ad altrettanti anni del suo ministero pubblico. La collocazione temporale della prima Pasqua collega il significato della scena della contestazione nei confronti del tempio con l’evento pasquale, come si potrà capire solo alla fine della narrazione.
Gesù si reca nel tempio di Gerusalemme per la festa di Pasqua e resta impressionato dal tumulto della gente che vendeva e comprava gli animali per i sacrifici, così come dalla presenza dei cambiavalute che sostituivano le monete riportanti l’effige dei vari re o imperatori con i soldi di Tiro, che invece non riproducevano nessuna figura umana. Questa confusione disturba Gesù: egli non può ammettere che il luogo deputato all’incontro con Dio accolga attività commerciali ed economiche.
La reazione da parte di Gesù verso coloro che distolgono i fedeli dalla preghiera è forte: addirittura si costruisce una frusta di cordicelle, scacciando tutti fuori dall’area del tempio e rovesciando i banchi dei cambiavalute. La contestazione di Gesù va compresa nello sfondo dell’AT. nel quale i profeti, come Geremia e Michea, hanno lanciato la loro denuncia contro quella struttura che avrebbe dovuto garantire l’incontro del popolo con Dio e invece, nel corso della storia, ha tradito completamente il suo scopo.
Il comportamento inaspettatamente violento di Gesù suscita la reazione dei giudei. Questo gruppo appartiene alla cerchia dei capi religiosi: scribi, farisei, capi dei sacerdoti, sadducei. Essi gli chiedono un segno che motivi e legittimi il suo comportamento insubordinato nei confronti dell’istituzione più sacra del popolo di Israele. La risposta di Gesù risulta enigmatica, con la proposta ai capi di distruggere il santuario, che lui avrebbe poi ricostruito nell’arco di tre giorni. I suoi avversari irridono questa proposta che, se fraintesa, rivelerebbe quella di una personalità da mitomania.
La risposta degli interlocutori in forma di interrogativo retorico e meravigliato fa leva su un sano realismo. Il tempio, che allora era stato ristrutturato sotto il regno di Erode in quarantasette anni, non può certo essere ricostruito in tre giorni soltanto. Questo monarca, che si era barcamenato tra il potente invasore romano e il dissenso giudaico, aveva voluto quest’opera per tacitare il malcontento dei giudei. Il risultato finale è che il tempio era diventato una delle sette meraviglie del mondo, grazie al quale Erode attutiva le aspre critiche nei suoi confronti da parte dell’opinione popolare.
Le parole di Gesù dal registro linguistico simbolico, come sono tutti gli altri dialoghi giovannei, vengono comprese dai responsabili religiosi giudei in senso realistico. Qui si palesa il gioco letterario e teologico dell’evangelista Giovanni che fa dei dialoghi un’occasione della sua ironia.
Il narratore spiega al suo lettore-ascoltatore il senso della risposta di Gesù, che in realtà non faceva riferimento alla struttura del Tempio, ma al suo corpo, che dopo gli eventi legati alla sua morte sarebbe stato riabilitato da Dio dopo tre giorni.
La comprensione dell’avvenimento ha bisogno di una prospettiva post pasquale secondo la quale il nuovo tempio è dato dal corpo stesso di Gesù. L’evangelista Giovanni nel suo Prologo aveva annunciato l’ingresso del Logos nella storia umana affermando che Egli pose la sua tenda in mezzo a noi. Il popolo di Israele che cammina nel deserto ha accanto a sé Dio nella tenda e anche quando il popolo entra nella terra di Canaan per due secoli la tenda resta sempre l’abitazione di Dio.
Davide vuole costruire un tempio, ma per motivazioni politiche: vuole solo consolidare la sua figura monarchica. Si tratta quindi di una volontà che strumentalizza Dio e che Dio stesso rifiuta. Solo Salomone riuscirà a costruirlo, ma non per caso nella storia di Israele esso viene distrutto due volte, segno di una istituzione che facilmente tradisce la fedeltà a Dio. I profeti infatti che si fanno propugnatori di un culto libero da formalismi e schizofrenie spesso mettono in crisi l’istituzione del tempio perché infedele alla volontà divina. Ed è per questo che nel prologo di Giovanni si afferma che non è più l’istituzione infedele del tempio il luogo dell’abitazione divina, ma Gesù, che ha posto la sua tenda nella storia dell’umanità.
Nel vangelo di Giovanni Gesù propone all’inizio della sua missione messianica in Israele la soppressione del tempio, perché il luogo dell’adorazione di Dio è il suo corpo crocifisso e risorto, sempre presente e disponibile in ogni luogo e in ogni momento della storia.
Il vecchio culto che Gesù contesta faceva credere che Dio fosse in vendita e che con offerte generose e cospicui sacrifici lo si potesse in qualche modo comprare. Gesù non è un ingenuo e non approva questa strana alleanza tra l’altare e il denaro, che finisce per sporcare l’immagine di Dio. Inoltre Gesù spazza via dalla nostra esistenza la possibilità di mettere le mani su di lui, di piegarlo alla nostra volontà. Dio, invece, è libero e il suo amore è del tutto gratuito. Non solo: con Gesù ogni costruzione sacra decade dal suo ruolo. Il vero tempio di Dio è lui. L’unico altare è la croce. E lui è, contemporaneamente, il sacerdote e la vittima perché offre sé stesso per la salvezza dell’umanità.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Grasso, 2021; Laurita, 2021.
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