Il vangelo di questa domenica (Gv. 10, 11-18) è tratto dal discorso del “buon pastore”. L’aggettivo “kalòs” ha molti significati, ma in questo caso quello più pertinente sembra “autentico”. Gesù infatti con questa affermazione presenta le sue credenziali per essere ritenuto non uno dei tanti pastori d’Israele, ma quello veritiero e autentico. Da ricordare che in ogni villaggio della Palestina erano presenti uno o più pastori che con il loro gregge fornivano il latte e altri prodotti caseari agli abitanti. Si tratta quindi di un’immagine consueta, che ai nostri giorni è andata quasi completamente persa.
Osservando i gesti e i comportamenti del pastore, gli autori della Bibbia si sono ispirati per parlare di Dio, il quale conduce il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto verso la terra della libertà, Canaan. A partire da questa esperienza di liberazione Israele ha sempre sentito Dio come il proprio pastore. Questa immagine è servita, tuttavia, per parlare anche dei capi responsabili del suo popolo, i quali, invece che comportarsi come pastori che si curano del gregge, lo derubano e lo strumentalizzano. Diversi profeti, infatti, denunciano i pastori fedifraghi e violenti che abusano del gregge invece di custodirlo.
Nel vangelo di Giovanni, Gesù riprende questa immagine, affermando di essere l’autentico pastore che viene a sanare e redimere una storia disastrata. Qual è il titolo che Gesù esibisce per non essere ritenuto come uno dei falsi pastori? Egli offre la vita per le sue pecore, espressione riferita alla sua passione e morte. Gesù non sfrutta, ma è invece capace di morire per i suoi. Al contrario, il mercenario abbandona il gregge se vede volgere al peggio la situazione (cfr. vv. 12-13).
La ripresa dell’affermazione “Io sono il buon pastore” serve a introdurre il tema della conoscenza. Il rapporto con il pastore si basa su una relazione di reciproca e mutua conoscenza. Gesù conosce il suo gregge, ma anche le pecore sono chiamate a conoscere il pastore. La conoscenza è principio di ogni rapporto e di qualsiasi approfondimento della relazione con Dio. Nel discorso di addio, Gesù riconosce che l’unico scopo della vita consiste nel conoscere Dio e il suo inviato Gesù. Tuttavia, la missione pastorale di Gesù non si limita a un esiguo gregge, che potrebbe identificarsi con il popolo di Israele, ma con uno molto più ampio: tutta l’umanità è chiamata a suo modo a far conoscere la presenza del trascendente nel mondo.
Aspetto fondamentale per la conoscenza del pastore è l’ascolto della sua voce: ciò che fa sorgere la fede non è l’esecuzione di opere buone o una vita pia, ma l’ascolto della voce di Dio (“Ascolta, Israele!”). L’ascolto non è solo della parola scritta, ma anche di quella attuale di cui la parola scritta è funzionale o propedeutica. Oggi il Signore parla nelle varie situazioni attraverso la cultura, gli uomini e le donne a noi contemporanei, la storia. Senza l’ascolto della Parola del pastore non c’è fede o, se c’è, è una fede deformata, non in sintonia con la vera immagine di Dio.
L’ascolto della Parola qui ha anche un’ulteriore funzione, quella di generare la dinamica dell’unità. Se l’ascolto di varie voci religiose crea conflitto e contrasto perché si rifanno a tradizioni culturali diverse e a modi di vedere differenti, la sintonia con la voce del pastore è scaturigine di unità. L’unità della comunità è talmente essenziale e irrinunciabile che senza di essa si comprometterebbe l’esito dell’annuncio evangelico. Il segreto per essere segno della presenza di Dio è proprio lo stile di comunione che deve contraddistinguere la comunità, che riceve l’incarico di diffondere la buona notizia di Gesù, crocifisso e risorto. La decisione di morire, che contraddistingue l’autentico pastore, non è il risultato di un errore storico, di una svista, di un fato implacabile, ma della sua precisa volontà di offrire la propria vita.
“Io sono il pastore buono”: è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a sé stesso. Eppure questa immagine non ha nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi e ha il coraggio di non fuggire. La sua “bontà” coincide con lo spirito di servizio, nella ricerca coraggiosa di ciò che lo Spirito desidera. Un servizio che esercita il potere come forma di paternità per promuovere una corresponsabilità e maturità laicale degna di questo nome.
Il buon pastore non ha interessi da difendere, non ha proprietà o beni da proteggere; affronta ogni pericolo a mani nude, rischiando la propria incolumità, senza cercare nessun privilegio e nessuna protezione particolare. A muoverlo è l’amore, un amore smisurato, tanto che è disposto a dare la propria vita, non a chiedere quella degli altri. A muoverlo è un amore che non è generico, ma personale. Conosce le sue pecore una per una, le difende dai pericoli, prende a cuore la loro esistenza.
Non è decisamente un pastore comune, Gesù! Il suo atteggiamento non è affatto scontato come può sembrare di primo acchito. Anzi, è del tutto eccezionale, fino a essere incomprensibile per chi ragiona con i parametri della vita quotidiana. Solo l’amore può spiegarlo. C’è un rapporto profondo e intimo che ci unisce al “buon pastore”, perché ci conosce fin nelle pieghe segrete della nostra anima. Vede l’entusiasmo e la fragilità, lo slancio generoso e la debolezza, il desiderio di amarlo e l’incostanza, che diventa pigrizia e infedeltà. Il suo sguardo non ci mette a disagio, non ci umilia, non genera vergogna o paura, perché è colmo di benevolenza ed è guidato dalla compassione. Per noi ha offerto la sua vita, per noi ha versato il suo sangue: ai suoi occhi, nonostante tutto, noi risultiamo preziosi, sempre.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Grasso, 2021; Marson, 2021; Laurita, 2021.
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