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Gesù il buon Samaritano

Il racconto del “buon Samaritano”, che si trova esclusivamente nel Vangelo di Luca (10, 25-37), viene dopo un dialogo tra Gesù e uno scriba a proposito del “comandamento più grande”, osservando il quale lo scriba avrebbe ereditato la vita eterna (v. 25). “Che cosa devo fare…”: con questa domanda rivolta a Gesù da uno che studia la Legge, Luca mostra che non si interessa alle controversie teoriche tra i dottori della Legge sul comandamento più grande, ma all’amore di Dio e del prossimo come condizione della salvezza, come regola di vita, liberando la Legge dai commenti che ne uccidevano lo spirito e la riporta all’amore, aumentandone le esigenze con il ritorno all’essenziale. Tuttavia, c’è da dire che già alcuni grandi dottori del giudaismo (cfr. Hillel, Aqiba), e lo scriba del Vangelo di Luca ne è un esempio, di fronte alla proliferazione delle prescrizioni e degli interdetti sviluppati e catalogati dalle varie correnti, avevano già ricondotto tutta la Legge all’amore del prossimo.

Gesù risponde allo scriba: ”Cosa è scritto? Come leggi?” (v. 26). Il ricordo di quanto Dio ha fatto rende possibile amare lui come Padre e gli altri come fratelli. Ma il popolo non legge quest’amore: fin dall’inizio Adamo non ascoltò Dio, il suo amore di Padre. E il dottore della Legge: “Amerai…” (v. 27): l’amore di Dio è un ordine! Amami, poiché io ti amo. L’amore altro non ama che essere riamato da chi ama. L’essenza dell’uomo è l’amore che il Padre ha per lui nel Figlio. L’associazione tra Dio e il prossimo come oggetto d’amore, è opera anch’essa dell’uomo di legge e non direttamente di Gesù. La nuova alleanza si radica nell’antica, che non viene abolita da Gesù ma portata a compimento. E’ impossibile pretendere di amare Dio che non si vede, senza amare il proprio prossimo. Ma, inversamente, solo l’amore per Dio rende autentico l’amore per il prossimo, fornendogli la ragione ultima. Io amo il mio prossimo nella misura in cui lo riconosco creatura e immagine di Dio.
“Fa questo e vivrai” (v. 28). L’amore di Dio e del prossimo ha per scopo l’eredità della vita eterna. La vita è legata al fare la parola che Gesù ha detto e per primo ha realizzato in sé.

Volendo giustificarsi d’aver fatto una domanda di cui conosceva lui stesso la risposta, lo scriba pone a Gesù una seconda domanda: “E chi è il mio prossimo?” (v. 29). Qualche autore traduce questa espressione non tanto: “chi devo amare”, quanto: “chi mi ama”: infatti, nessuno può amare né sé né l’altro né Dio se prima non ha sperimentato la vicinanza di chi lo ama. Tuttavia, questa appare subito come una domanda artificiosa perché destinata a far riprendere e progredire il dialogo introducendo la vera novità evangelica. E Gesù, a tutta risposta, racconta la parabola del “Buon Samaritano”. L’uomo che i briganti hanno spogliato e lasciato mezzo morto discendeva da Gerusalemme a Gerico: una strada desertica di una trentina di chilometri, con un dislivello di oltre mille metri, con la gola di Ouadi el-Qelt da attraversare. Un sacerdote e un levita, pur avendo visto il poveretto che giaceva sul bordo della strada, essi passano dall’altra parte e si allontanano. Essi rappresentano i farisei con cui se la prende Gesù nel vangelo di Matteo: essi simboleggiano lo stretto attaccamento alle prescrizioni rituali; Dio accorda molta più importanza all’esercizio della misericordia che si concretizza, nel nostro caso, nell’azione in favore di un uomo in stato di necessità. Il culto regolato dalla Legge non può prevalere sull’amore, che è il cuore della Legge!

“Invece un Samaritano…(v. 33). Uno di quei samaritani che i giudei consideravano eretici e scismatici detestabili e stupidi, come i peggiori peccatori, viene in aiuto di uno sconosciuto, che presumibilmente è un giudeo perché siamo in Giudea, e così dimostra di capire meglio dei rappresentanti ufficiali del giudaismo ortodosso la volontà di Dio espressa dai profeti (Osea) nell’antico Testamento. Egli sta andando nella direzione opposta all’uomo che scende da Gerusalemme: compie il viaggio dalla Samaria a Gerusalemme, proprio come Gesù. “E si prese cura” (v. 34): il verbo nella sua forma greca (aoristo) esprime la cura che Gesù si è accollato nel tempo determinato della sua vita terrena. Dopo di lui, e come lui, faranno nel suo nome quelli che da lui sono stati curati: diventeranno “albergatori”, ossia “tutti accoglienti”.

Il samaritano non si chiede se il ferito sia giudeo o no, compatriota o straniero, amico o nemico: gli basta il fatto di trovarsi in presenza di un uomo in difficoltà, che ha bisogno di aiuto. Non fa per lui “qualcosa”, ma “tutto” ciò che può, facendo risaltare meglio l’astensione scandalosa del sacerdote e del levita. La compassione totalmente disinteressata del samaritano appare talmente esemplare che molti Padri della chiesa hanno visto in costui i tratti stessi di Cristo: infatti, possiamo certamente collocare l’ambiente vitale della parabola nel corso del ministero di Gesù che spiega e difende contro i rappresentanti del sistema, sacerdoti, scribi e farisei, il proprio comportamento misericordioso nei riguardi dei malati che guarisce anche in giorno di sabato, dei peccatori che frequenta e riporta a Dio. Con questa parabola Gesù invita gli ascoltatori a condividere la sua compassione attiva e a non imitare l’atteggiamento negativo del sacerdote e del levita.

“Prenditi cura…” (v. 35). Prima di andarsene, il samaritano lascia due denari all’albergatore dicendogli di prendersi cura dell’uomo ferito. Gesù, il buon samaritano, ci ha lasciato ciò con cui vivere (“due denari” v. 35), cioè la capacità di amare. Dopo che lui ci ha amati per primo, anche noi ora possiamo amare Dio e il prossimo, e così ereditare la vita. Questo prendersi cura è la missione della Chiesa che continua quella del samaritano ormai assente.
Chi di questi è stato il prossimo? Con questa domanda Gesù vuole strappare il dottore della Legge dal suo mondo scolastico e fornirgli una concezione pratica del prossimo e della maniera in cui bisogna amarlo per ereditare la vita. Lo scriba è invitato a non cercare di limitare il campo della misericordia compilando la lista delle persone da amare, ma a soccorrere chiunque abbia bisogno del suo aiuto. “Far misericordia” (v. 37) è il senso della missione di Gesù. Con lui è scesa sulla terra la misericordia stessa del Padre. Ora anche lo scriba, vedendolo e sentendolo, è in grado non solo di sapere cosa è scritto, ma anche di riconoscerlo realizzato. La Legge si fa Vangelo sotto i suoi occhi: “Va, e anche tu fa lo stesso” (v. 37).

Bibliografia consultata: Ternant, 1974; Fausti, 2011.

Redazione

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