Gesù, il Pastore dell’umanità
“Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre” (vv. 32-33)
La tradizione del Figlio dell’uomo
Il testo evangelico (Mt. 25, 31-46) si apre con un primo quadro che offre la scenografia della venuta del Figlio dell’uomo, ricostruita con immagini e simboli ripresi dalle diverse tradizioni bibliche. La venuta del Figlio dell’uomo nella gloria con tutti i suoi angeli, richiama i testi del profeta Daniele sul giudizio di Dio. Il Figlio dell’uomo è il giudice finale e Signore della storia. Egli prende posto sul trono del Re-Messia, costituito giudice universale.
Su questa immagine del Figlio dell’uomo si proiettano i tratti della figura del pastore del profeta Ezechiele che si fa giudice dell’intera storia umana. Infatti davanti al Figlio dell’uomo, insediato come re, messia e giudice, sono convocate tutte le genti (v. 32). “Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre” (vv. 32-33). Questa separazione nell’assise finale viene fatta in base ai criteri che vengono presentati nei due quadri successivi.
I criteri del giudizio, sui quali si pone l’accento nel nostro brano, sono indicati da due scene contrapposte, incentrate sul dialogo tra il Figlio dell’uomo giudice e i convocati al giudizio. Alla scena positiva dei giusti, chiamati a ereditare il Regno, si contrappone quella dei malvagi, che sono esclusi definitivamente dalla vita.
Cristo è il criterio
“Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (v. 34). Questa benedizione sottolinea la condizione di felicità, nella quale sono accolti i giusti per l’iniziativa gratuita e sovrana di Dio che si rivela come Padre. Il Regno, dato ai giusti, è quello svelato e attuato dal Figlio. L’accento, però, è posto sulla motivazione di questa accoglienza o benedizione destinata ai giusti. Il motivo è l’attuazione di sei opere di misericordia corporale, che ritroviamo nella tradizione biblica sapienziale, in quella profetica e raccomandate anche dalla sinagoga.
Dunque non è qui la novità: il soccorso dei bisognosi e la tutela dei deboli ha lunga tradizione perfino nella letteratura extrabiblica. La vera novità evangelica si ha nella motivazione cristologica. Di fronte alla domanda piena di sorpresa dei “giusti” (vv. 37-39), il re risponderà: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli e sorelle più piccoli, LO AVETE FATTO A ME” (v. 40). L’identificazione del Figlio dell’uomo con i più piccoli, che egli riconosce come “suoi fratelli e sorelle”, è il motivo dell’accoglienza salvifica nel regno del Padre suo.
Contrapposto a questo quadro positivo è quello dei condannati alla rovina eterna, perché non hanno accolto i fratelli e le sorelle più piccoli nella loro situazione di bisogno e necessità quotidiana: “NON LO AVETE FATTO A ME” (v. 45).
I piccoli non possono essere altri che i bisognosi e i deboli dispersi tra le genti. Lungo la storia umana, ai popoli che non hanno incontrato il Figlio dell’uomo negli inviati e testimoni della sua presenza storica, egli si è fatto incontro nei suoi fratelli e sorelle più piccoli, cioè negli altri uomini e donne bisognosi ed esposti.
Un criterio concreto
In quel giorno non verremo esaminati sulle nostre idee, né giudicati sull’ortodossia della nostra fede. No, il criterio di valutazione della nostra esistenza sarà estremamente concreto: abbiamo sfamato quelli che erano senza cibo, abbiamo accolto chi era straniero o privo dell’essenziale, abbiamo visitato e soccorso chi era malato o in carcere? In questo caso ci sentiremo chiamare “benedetti”. Se invece abbiamo ignorato le richieste di chi aveva bisogno di pane e di vestiti, di una casa e di un lavoro, di attenzione e di aiuto, allora verremo designati come “maledetti”.
E Gesù ci ricorderà che è proprio a lui che abbiamo donato o negato la compassione e tutto quello che essa comporta. Invano, allora, cercheremo delle scuse. Le nostre omissioni appariranno in tutta la loro gravità perché riveleranno il nostro egoismo, la nostra durezza di cuore. E scopriremo che tante persone, che giudicavamo lontane da Dio, avevano invece accordato a Gesù quello che chiedeva, lo avevano accolto, sfamato, dissetato, vestito, anche senza saperlo. In effetti la reazione degli uni e degli altri è improntata proprio alla meraviglia.
E’ proprio questo, in fondo, che sconcerta. Abituati a considerare Dio come ricco e potente, facciamo fatica a riconoscerlo nei panni di chi manca del necessario e ha bisogno di essere aiutato. Ma è proprio questa la strada che Gesù ha percorso. Egli non è venuto per imporsi, ma per amare. Si è fatto povero per condividere la nostra miseria e la nostra fragilità.
La strada da lui percorsa è proposta a ogni discepolo. Sceglierla significa inoltrarsi in una logica nuova in cui nessuno considera i suoi beni come un possesso prezioso da stringersi al petto, ma come un’opportunità per tirar fuori gli altri dalle loro difficoltà e dai loro problemi.
Come valutare un’esistenza, Signore, da che cosa far dipendere la sua riuscita o un cocente fallimento? Dal potere, dai titoli e gli onori, dai beni accumulati e le imprese fondate? Oppure da una corretta professione di fede? Tu sembri avere un parere tutto tuo su ciò che è proprio determinante. E lo fai dipendere da azioni del tutto concrete e alla portata di mano: come sfamare, dissetare, vestire, alloggiare, visitare, curare. Sì, è su questo che verremo giudicati e la nostra avventura umana apparirà degna di questo nome se avremo contribuito a soddisfare i bisogni fondamentali del nostro prossimo.
Se ci saremo fatti carico delle sue necessità, se gli avremo cercato un lavoro equo, se avremo liberato dalle catene, dalle dipendenze, dalle servitù, ma anche dagli stracci, dalla penuria, e da tutto ciò che in lui umilia il suo volto.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: SdP, 2023; Laurita, 2023.