Gesù, vincitore di Satana
di Il capocordata
Il racconto delle tentazioni (Lc. 4, 1-13) nella tradizione evangelica serviva per illustrare il messianismo di Gesù, con il suo rifiuto di prendere il potere politico, di fare un segno divino che costringesse tutti a credergli e di seguire una via umana (satanica) che evitasse la croce per ottenere il Regno. Le tentazioni sono storicamente da connettere con il battesimo, che costituisce la scelta fondamentale del Cristo: la solidarietà coi fratelli, in obbedienza al Padre. Le tentazioni presentano i costi di questa scelta, sotto forma di lotta contro la scelta contraria.
Ci sono due modi opposti di essere “Figlio”, uno diabolico e uno divino. Il primo consiste nel possedere sé, gli altri e l’Altro, mettendo le mani sulla vita propria e altrui, il secondo nel ricevere tutto come dono dal Padre e donare come lui, mettendo la propria vita nelle mani degli altri. L’uno crea un sistema di relazioni di violenza e morte, l’altro di amore e di vita. Le tentazioni costituiscono il tessuto della vita quotidiana cristiana: sono la lotta necessaria contro il male e i costi stessi del bene. Il diavolo che tenta l’uomo ha dapprima un solo potere: rubargli la Parola, in modo che non obbedisca a Dio. Ma se uno obbedisce, la Parola attecchisce nel suo cuore e porta frutti di salvezza.
L’Antico Testamento nel racconto di Luca
Tre sono le tentazioni: il pane, sul pinnacolo del tempio, a proposito dei regni di questo mondo. Le citazioni del Deuteronomio (capitoli 6 e 8) sono in realtà le tre risposte sovrane di Gesù a Satana. La prima citazione è presa da Dt. 8, 2-5: “Non di solo pane vivrà l’uomo”, si tratta dell’esortazione, rivolta ad Israele, di ricordare l’educazione ricevuta da Dio che si è comportato con lui come un padre con il proprio figlio. Ma là dove Israele nel deserto aveva ceduto alla tentazione con la mormorazione, Gesù risponde da rabbi dotto e da Figlio obbediente, limitandosi a citare la lezione proposta dal Deuteronomio. La seconda citazione è attinta da Dt. 6, 16: “Non tenterai il Signore tuo Dio”, si tratta della predicazione del Deuteronomio che mette Israele in guardia contro il rischio di ricadere nell’errore dei padri, i quali avevano tentato Dio a Massa, dubitando della sua presenza in mezzo a loro e pretendendo un segno. Nell’estrema sobrietà delle sue parole, Gesù si rivela Figlio fiducioso, ben istruito e giusto, insensibile alla tentazione. La terza citazione di Dt. 6, 13: “Adorerai il Signore tuo Dio”, accenna all’autentica adorazione che Israele deve adottare al momento dell’ingresso nella terra promessa. Mentre Israele ha ceduto alla tentazione di offrire un culto agli “dei delle nazioni”, Gesù proclama la necessità di sottomettersi all’unico Dio.
Le tentazioni
L’evangelista Luca afferma che Gesù è condotto dallo Spirito nel deserto e suggerisce che Gesù è continuamente sottoposto alla tentazione durante il soggiorno nel deserto, durato quaranta giorni, terminati i quali Egli ebbe fame. Il diavolo, mettendo in dubbio la proclamazione fatta nel Battesimo, chiede a Gesù di convalidare il suo titolo di Figlio di Dio e di provarne il contenuto con il compimento di un miracolo: “Dì a questa pietra che diventi pane” (v. 3).
La trasformazione magica della pietra direttamente interpellata si rivelerebbe un prodigio maggiore che dire a dei sassi di diventare pane. “Non di solo pane vivrà l’uomo”: questa breve citazione è sufficiente al Figlio per allontanare la tentazione di utilizzare il suo potere regale sugli elementi, la potenza della Parola al solo scopo di sfamarsi e di salvarsi. L’antica lezione del Deuteronomio non oppone la Parola al pane ma alle utilizzazioni indegne suggerite dal diavolo: invece di essere usata magicamente, la Parola diventa semplice richiamo alla Scrittura citata senza alcuna possibilità di replica, come deve fare un figlio fedele di Israele. Nell’obbedienza alla parola di Dio si sperimenta che il primo pane, sorgente di vita, è Dio stesso nel suo amore. E questo non è in alternativa al pane: ne è anzi il principio. Aver suggerito questa alternativa falsa fu l’astuzia del nemico per rovinare l’uomo.
La seconda tentazione: “A te darò tutti i regni della terra se prostrandoti mi adorerai”. Da chi riceve Gesù la potenza dal diavolo o dal Padre? La risposta di Gesù: “Il Signore Dio tuo adorerai”. Gesù, come il Figlio, lascia unicamente al Signore Dio l’iniziativa di dare o negare l’autorità e la potenza a chi vuole e a chi vorrà. La potenza di cui Gesù darà prova sarà dunque esclusivamente quella a lui concessa dal Padre, al quale soltanto gli rende culto.
Nella terza tentazione, il diavolo porta Gesù a Gerusalemme, il luogo della Passione e poi della nascita della comunità cristiana, è il centro teologico del dramma e dell’evento di salvezza legati all’obbedienza di Cristo fino alla morte, al rigetto da parte dei suoi e alla risurrezione ad opera del Padre. Lo porta sul pinnacolo del tempio: “Gettati giù, perché gli angeli ti custodiranno”. Gesù risponde: “Non tenterai il Signore Dio tuo”. Il lettore è portato a disprezzare il controsenso diabolico della Scrittura e ad ammirare la sobrietà della risposta di Gesù: tentare il Figlio in questo modo significa tentare Dio. Gesù lo sa, perché è innanzitutto un dottore in Israele, e ancora una volta si limita a ricorrere alla Legge per far fronte al diavolo e chiudere per il momento la partita in modo vittorioso.
Il racconto delle tentazioni di Gesù, collocato all’inizio della sua opera, è un racconto chiave e cruciale. Gesù, il Figlio di Dio, è presentato come colui che accetta tutte le conseguenze della sua obbedienza filiale fino alla Passione. Egli ha rinunciato all’utilizzazione egoistica della sua potenza religiosa, ad ogni potenza politica che sia legata al padrone dell’universo, e, in ultimo, perfino alla protezione che gli è dovuta a Gerusalemme, sua città. Gesù ha subito vinto la tentazione, ne ha trionfato fin dai primi passi: ancor prima di parlare, di guarire, di soffrire, Gesù si presenta al suo popolo puro da ogni marchio di satana sulla sua persona o sulla sua opera. La Passione si limiterà a manifestare pienamente ciò che già è qui presente in germe.
Bibliografia consultata: Smyth-Florentin, 1973; Fausti, 2011.