Da oggi 27 gennaio, Giorno della Memoria, e fino a sabato 29, presso la scuola comunale di musica di Fara in Sabina troviamo “Halt!”, mostra fotografica di Daniele Frasca ideata insieme a Lorenzo Lupi e allestita con il supporto dell’Associazione Pueri Symphonici e della Città di Fara in Sabina. La mostra è ospitata nei locali della Scuola comunale di musica a Passo Corese Largo Giulio Cesare 7.
Tema della mostra, il campo di concentramento di Auschwitz e Auschwitz–Birkenau (Auschwitz II). Daniele Frasca, insegnante e fotografo per passione, si è recato nei campi di sterminio. Dalla sua visita nasce un progetto fotografico che parla alle persone senza il velo di pietismo in cui rischiamo di cadere quando affrontiamo lo sterminio degli ebrei.
Daniele ha già portato in giro nel territorio della Sabina una mostra fotografica su Chernobyl dal 2018, il suo intento è raccontare la realtà di oggi per non perdere la storia vera. Lo abbiamo incontrato proprio mentre allestiva la mostra.
Daniele, raccontaci come nasce la mostra che stai allestendo
Come tutti i viaggi che faccio in luoghi di importanza storica, il mio principale interesse è personale; voglio conoscere, ed essendo un fotografo, imprimere le cose che vedo con la mia macchina è un gesto naturale. Spesso mi accorgo che scatto prima di guardare, è capitato anche in questo viaggio.
Al mio ritorno, dopo le vacanze di Natale, ero a cena con il mio amico Lorenzo Lupi, direttore della scuola di musica di Fara in Sabina e ricordo che parlammo della mia esperienza ed è nata l’idea della mostra. Qualche giorno dopo nei locali della scuola mi illustrò una sua prima idea per l’allestimento. Naturalmente accettai. Ne abbiamo parlato poi con l’Assessore Antonino La Torre e il sindaco Roberta Cuneo, che subito hanno sostenuto questa iniziativa, ed eccoci qua.
Quante foto mostrerai?
Nel progetto ci sono 41 scatti, non so dirti se riuscirò a mostrarli tutti. Le fotografie raccontano del luogo e del soggetto ma in ogni immagine ci sta molto del fotografo. Quelle immagini sono il mio punto di vista, le mie emozioni, non è facile mostrarsi a tutti.
Parlaci allora di cosa significa andare in posti come Auschwitz
La prima sensazione entrando è quella di costrizione, non intesa come essere costretti a entrare, penso alla costrizione intesa come dover vivere in uno spazio molto piccolo a contatto forzato con altre persone. Il filo spinato che tutti vediamo a confinare lo spazio esterno del campo è solo una parte. Ci sono recinzioni spinate anche tra gruppi di baracche, in questo modo bloccavano eventuali rivolte, ho visitato le baracche in mattoni, fredde, buie, dove i prigionieri dormivano. Ecco, vorrei che le persone che visitano la mostra ad un certo punto pensassero “devo uscire, ho bisogno di aria”.
Avete realizzato un allestimento che anch’esso è di impatto visivo
Voglio raccontare cosa avremmo, presumibilmente, visto entrando come prigionieri. Io ci sono stato per una giornata li dentro, l’aspettativa di un deportato abile al lavoro era di circa 3 o 4 settimane prima che le condizioni di salute diventassero irreversibili. Li dentro non si aveva la reale percezione di cosa stesse accadendo. I forni non sono visibili, le camere a gas nascoste sottoterra. Ricordo che la tristemente famosa fotografia della pira di corpi ammassati venne scattata durante la prigionia da un deportato. Un documento senza il quale non sapremmo davvero quanto funzionasse bene la macchina di sterminio nazista. La generazione degli anni 80 è probabilmente l’ultima ad aver realmente potuto incontrare i superstiti dell’olocausto, abbiamo il dovere di raccontare alle nuove generazioni. Noi saremo i testimoni dei sopravvissuti, è una responsabilità che sento molto forte.
Quale immagine porterai sempre con te di questo viaggio?
C’è un padiglione ad Auschwitz, tra i tanti, in cui sono conservati gli oggetti che i deportati portavano con loro. Quando devi caricare migliaia di persone su un treno piccolo, è più facile se salgono spontaneamente, ecco, per far sì che salissero venivano invitati a prendere i loro oggetti, mettere i nomi sulle valigie. Un modo meschino per lasciar intendere che ci sarebbe stato un dopo, un futuro oltre la prigionia. Bene, in questo padiglione c’è una grande vetrina di scarpe, accanto, una più piccola.
Quando lavoro cerco di non pensare allo scatto che ne verrà fuori, cerco di farmi trasportare, per me l’obbiettivo è come uno scudo, ovviamente penso a quello che sto fotografando ma cerco di lasciare che sia l’immagine a prendere vita.
Ho abbassato la macchina e avevo di fronte un paio di stivaletti blu, dello stesso numero che calza una delle mie figlie. Ho avuto bisogno di uscire a prendere aria, credo che quello sia stato uno dei momenti che più hanno impattato nel mio lavoro.
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