Gli occhi di Tammy Faye. Jessica Chastain telepredicatrice in odore di Oscar
Splendori e miserie della più famosa coppia di predicatori americani della storia, in questo biopic che inaugurò l’ultima Festa del Cinema di Roma
GLI OCCHI DI TAMMY FAYE
Film – USA/Canada 2021, durata 126’. Regia di Michael Showaller. Con Jessica Chastain, Andrew Garfield, Vincent D’Onofrio. Al cinema.
La trama
La storia è vera.
Il cinema è stato a lungo campione della rappresentazione vivida e spudorata dell’immaginario collettivo.
Ma, ahimé, si trova da troppi anni ad attingere sempre più al realmente accaduto che alla pura fantasia; ne è prova l’epigrafe “Ispirato a una storia vera” che ormai campeggia in testa a tre quarti dei film in circolazione.
Non fa eccezione quello americano. Che qui porta sullo schermo la vicenda di una coppia di predicatori – la Tammy Faye del titolo e Jim Bakker – che a partire dalla natìa Minneapolis nei ’70 del ‘900 ebbero l’intuizione di impostare l’elargizione del messaggio evangelico non più sull’umiltà, la penitenza, la temperanza, bensì sulla gioia di vivere e sulla disponibilità a cogliere senza sensi di colpa i piaceri che il Signore è disposto a offrirci. Una sorta di manifesto di edonismo religioso. La trovata generò un’escalation di ascolti che presto uscì dall’ambito locale per andare a costruire il PTL (Praise The Lord) Club, 120 milioni di telespettatori all’anno, il più seguito network televisivo religioso mai esistito negli Stati Uniti. Facile a questo punto farsi prendere la mano: la coppia assume una condotta progressivamente più spregiudicata, che le vale il voltafaccia e poi l’aperta ostilità dei predicatori delle altre congreghe nazionali; che alla fine ne decreteranno la caduta.
Tutto ruota intorno a Tammy
In realtà il film poggia sul personaggio di lei. Non a caso Jessica Chastain ne è, oltre che il volto, anche la produttrice. Data la debolezza del personaggio di lui (Jim Bakker è un ambiguo traffichino senza spessore, complice anche la piattezza interpretativa di Andrew Garfield, tuttavia candidato agli Oscar 2022 per un altro film) è infatti Tammy la figura più interessante e sfaccettata. Perché, nonostante questo classico biopic ricalchi uno schema che ci sembra fin troppo usato, il racconto non ci mostra una donna furba e affamata di successo, che elabora scientemente espedienti per fregare i semplici, bensì una che poco ha perso della ragazza degli inizi, che genuinamente crede in un binomio fede-godimento, che sinceramente fra sè e sè prega Dio di chiarirle la strada, che senza dubbi di sorta prova a intrecciare le sue passioni – cantare, recitare, apparire – con la predicazione religiosa. Gli occhi del titolo, per dirne una, citano la caratteristica per cui Tammy andava famosa all’epoca, quegli occhioni superevidenziati dal trucco e dalle sopracciglia vistosamente dipinte.
A rendere il personaggio più complesso, l’attenzione – allora insolita e malvista in quegli ambienti – verso sesso, omosessualità e AIDS.
Insomma un cocktail di ingenuità e caricatura, progressismo ed esagerazione.
Ma ci è piaciuto?
Nonostante tutto non convince. La narrazione non esce dai binari di genere, dai quali sembra volersi affrancare. Non scava alla radice del malessere esistenziale, del disagio della protagonista, dell’inespresso dietro la cortina di trucco, lustrini e jingle TV.
Nel mix di ingredienti materialisti e spiritualisti, nella redenzione finale, è una storia americana, che forse da noi non prende se non come fenomeno di costume altrui. Ma è proprio in un atteggiamento molto americano che potremmo trovare il senso della storia: il diritto alla felicità pagato col non voler sapere come la si raggiunge; e dunque scollegato dalle conseguenze.
Su tutto spicca il lavoro fatto dalla Chastain, non per niente presente nella cinquina per migliore attrice protagonista ai prossimi Oscar: calarsi nelle varie fasi di vita e personalità di Tammy, non solo fisica (irriconoscibile dopo le sedute di trucco & parrucco, ma non andremmo lontani dal Tale&Quale Show), bensì gestuale, di sguardi; il velo dell’amarezza che cala impercettibilmente e progressivamente su di lei. Insomma immedesimazione profonda: parlando al pubblico Jessica ha detto di cercare con ciascun suo personaggio un rapporto “umanista”, un “seme da far diventare una vera connessione, anche quando si tratta di donne molto diverse da me”. Di questo le è stato dato atto oltreoceano, quando a settembre il film ha esordito con successo al Sundance Film Festival.