Categorie: Interviste

Gourmet, lo chef Antonello Colonna contro l’assenteismo sociale

Come definirlo? Cuoco, Imprenditore, Chef, Collezionista, Ristoratore, Albergatore, Filosofo, Poeta, Inventore, Rivoluzionario? Tentare di dare una definizione di Antonello Colonna da Labico, paese in provincia di Roma, seimila abitanti ( ma negli anni ’90 erano meno della metà), collocato lungo la via Casilina, nella valle fra i monti Prenestini e i Colli Albani, è come voler catturare un’anguilla a mani nude e per di più con le mani insaponate. Perché Colonna, dotato di un eloquio più fragoroso della cascata delle Marmore, amante dei calembour, degli ossimori, dei paradossi, delle digressioni, delle iperbole, e chi più ne ha più ne metta, non si lascia ingabbiare facilmente. E’ protagonista assoluto, in qualsiasi cosa faccia, anche quando lo intervisti. Credi di fargli delle domande, lui ti lascia fare, un po’ come i pugili nel primo match, quando saltellano sul ring per studiare i punti deboli nella guardia dell’avversario, poi ti porta dove vuole lui. Di certo è un Provocatore, semantico ovviamente, in tutto quello che fa: è animato da un imperativo categorico, che gli impone di andare sempre oltre, di non fermarsi mai, di stupire, di infrangere le regole, di non conoscere confini. La definizione che più gli piace e che ha accettato anche come titolo di un libro di memorie è “Anarchico”, anarchico dei fornelli. Partiamo da questa citazione e subito arriva la sua puntualizzazione che ti spiazza: “Per l’esattezza sono un aristo-anarchico”. Un ossimoro tanto per gradire e per presentarsi.

Siamo in un suggestivo angolo incontaminato della campagna di Roma, a soli 40 chilometri dalla capitale – ma la città sembra molto più distante – la sua ultima creatura, l’Antonello Colonna Vallefredda Resort& Spa. Un gioiello di minimalismo architettonico realizzato in acciaio, cemento e vetro, firmato dallo studio di architettura Aniello&Tasca, che sembra mutuato dalla filosofia di Frank Lloyd Wright: 3.000 metri quadri coperti come un bunker nascosto nelle pieghe naturali del territorio, arredati con oggetti-scultura di design, lampade, tavoli , sedie, poltrone che portano la firma di Giò Ponti, Eames , Castiglioni, Le Corbusier, Mies van der Rohe, Breuer, 2.500 metri quadri di terrazze percorribili anche da auto, 12 esclusive camere avvolte dalla luce naturale, con orto giardino, ristorante d’autore, ovviamente stellato, piscina d’acqua termale, centro benessere, ma anche temporary gallery, ma anche libreria, ma anche azienda agricola biodinamica, un parco naturale di 20 ettari dove è possibile “perdersi e ritrovarsi con una sensazione di pace e di benessere che avvolge passeggiando con il corpo e con la mente circondati da un paesaggio che evoca lontani ricordi tra campi di grano e di papaveri castagneti noceti e alberi da frutta dai sapori dimenticati”.

Oramai è questo il suo quartier generale. E’ ritornato da dove era partito nel lontano 1985, quando prende le redini dell’osteria gestita dalla famiglia da oltre 100 anni e, approfittando dell’assenza del padre, Andrea, e potendo contare sulla timorosa ma partecipe complicità di mamma Rina , la rivoluziona. Cambia il nome, dandogli il suo, “Antonello Colonna” , cambia la linea gastronomica, che pur continuando a riferirsi alla più antica tradizione romano-laziale svetta però verso mete di levità e genuinità mai toccate prima, e pervasa di caratteri fortemente innovativi che ne esaltano la raffinatezza e l’eleganza.

Il giovane chef, dai modi spicci, concreto, baldanzoso, molto sicuro di sé e dei risultati che intende perseguire con la sua rivoluzione gastronomica, conquista in breve una clientela che supera ampiamente gli originali confini di Labico, sconosciuta ai più ma da quel momento identificata con la “Porta rossa” del suo ristorante. Quella “Porta Rossa” comincia a essere varcata da clientela di alto livello che arriva dalla capitale, dall’Italia e anche dall’estero. Passa un anno ed ecco che troviamo il giovane Antonello partecipare a una soirèe promossa dalla NIAF (National Italian America Foundation) denominata "The wind of Rome is a friendly wind", dove miete notevoli successi. Un anno dopo nel 1987, vola in America su invito di un gruppo di ristoratori italoamericani, apre sulla 2nd Avenue, un ristorante di cucina ebraico-romana che chiamerà "Albero d'Oro", ora noto con il nome di "Vabene".

A seguire, consolidata oramai la sua fama riceve dalla CIA (Culinary Institute of America) l'incarico di tenere lezioni sulla cucina romana moderna e cura inoltre il lato gastronomico di manifestazioni quali il "Columbus day", la "New York Marathon", "Time of Italy" (quest'ultimo in collaborazione con ALITALIA e BLOOMINGDALE), i Campionati Mondiali di Calcio del 1990 e del 1994, anno in cui si occuperà anche del "Congresso Internazionale del Gas" per la SNAM. Eccolo quindi supervisore di Casa Italia per i Giochi Olimpici di Atlanta e, nel maggio dell'anno successivo, nominato dall’ENIT "Ambasciatore della cucina italiana nel mondo", consulente del gruppo "PAPER MOON", con sede a New York, per il quale cura l'apertura dell' omonimo locale ad Istanbul, consulente di molte catene alberghiere fra cui la Ramada Inn in Times Square di New York, conduttore della rubrica gastronomica del programma televisivo italiano "Più sani più belli", dal 1991 al 1996, testimonial della Cathay Pacific Airlines, e dei più importanti marchi del made in Italy dai salumi Beretta alla pasta Di Vella, da De Longhi, al Grana Padano e al Pecorino Romano. Potrebbe bastare questo? Macché! Siamo solo all’inizio. Nel 2000 riceve la candidatura a responsabile per Casa Italia alle Olimpiadi di Sidney. Forte di tante esperienze dà vita al F.U.D , (Food under Direction), settore catering che si occupa di grandi eventi, ricerca editoriale, marketing, immagine e comunicazione applicati al campo dell'alimentazione. La CREMONINI S.P.A. lo incarica della gestione pasti sulla carrozza-ristorante dei treni ETR 500 lungo la tratta Roma-Milano-Roma. Arriva anche un riconoscimento universitario, la Luiss Management gli affida le docenze di management della ristorazione nell'anno accademico 1999/2000. In quello stesso anno Palazzo Chigi gli affida l'incarico di Chef Ufficiale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Qualifica che lo porta a curare e realizzare il pranzo che, il 18 ottobre 2000, il Presidente del Consiglio Giuliano Amato offre alla Regina d'Inghilterra Elisabetta II. Di li a poco il Ministro delle Politiche Agricole e Forestali lo nomina componente del Comitato per la valorizzazione del patrimonio alimentare italiano.

In questo vortice di esperienze nazionali e internazionali Antonello Colonna pur essendo entrato a pieno titolo nei palazzi del potere non dimentica però chi ne resta fuori. Ed eccolo nel Dicembre 2002 dare il suo contributo all'iniziativa benefica della Comunità di Sant'Egidio "Wine for Life" per la lotta all'AIDS in Mozambico, collaborare con BNL Casa Telethon per la raccolta di fondi destinati alla ricerca sulle malattie genetiche, partecipare alla Cena di Gala del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali per la presentazione di iniziative di solidarietà sociale quali la Fattoria Sociale, alle porte di Roma, all’'invio di generi alimentari in Argentina in collaborazione con l'Unicef ed altre associazioni, collaborare in più occasioni con la Comunità di Sant'Egidio, fino a preparare nella basilica di Santa Maria in Trastevere il pranzo di Natale per oltre 500 senzatetto.

In giro per il mondo ma senza mai dimenticare il suo ristorante di Labico che nell'Ottobre 2003 la Guida dell'Espresso colloca nell'empireo dei primi quindici ristoranti italiani. E tre forchette gli arrivano anche dalla Guida del Gambero Rosso.

Nell’ottobre del 2007 un’altra consacrazione ufficiale, inaugura il Ristorante Open Colonna all'ultimo piano del Palazzo delle Esposizioni a Roma. E qui organizza nel 2009 una cena per i Reali di Svezia ospiti di Confindustria. Su quel ristorante si posa ben presto una stella Michelin e una stella rimane anche sul ristorante di Labico.

Ce ne sarebbe abbastanza per vivere di rendita con l’orgoglio di avere conquistato successi e affermazioni in tutto il mondo. Ma non è così per Antonello Colonna che nel  2012 decide di tornare a Labico, non nel ristorante che gli ha dato fama internazionale ma in un nuovo spazio avveniristico, dove non ci sono confini fra interno ed esterno, fra pubblico e privato, dove non ci sono pareti a delimitare funzioni d’uso, reception, bar, ristorante, biblioteca, salotto, galleria d’arte, immerso nel parco naturale di Vallefredda. Un ritorno non certo al passato ma al futuro.  

E la cucina? E’ quella che a dispetto di tanti innovatori e sperimentatori che hanno eccitato le cronache gastronomiche di questi anni, non ha mai rinnegato la sua origine contadina, che affonda le mani nell’orto e nelle aie con sapienza, che propone il lusso nella semplicità anarchico-rivoluzionaria dei fornelli.

“Io – si confessa – utilizzo la campagna romana come una grammatica preziosa con cui inventare sempre nuove sintassi, un linguaggio originale ma ispirato alla tradizione, una cucina di armonie e di terra, di geometrie e modernità perché la romanità della mia cucina risponde al desiderio di trasmettere con i miei piatti l’emozione di cose perdute o dimenticate, di profumi e sapori antichi, mentre l’internazionalità è invece la ricerca, la conoscenza, la curiosità e l’anarchia, la capacità di aprirsi al nuovo restando se stessi”.

Una romanità che si legava fortemente al territorio quando negli anni 80 tutti puntavano a darsi un allure per così dire di gastronomia più …. raffinata che cercava effetti per stupire la clientela. Oggi invece il territorio è sulla bocca di tutti. Non è che si stia un po’ abusando di questa parola?

“Io al territorio ci ho creduto fin da giovane quando ho pensato di lasciare l’attività da impiegato che svolgevo presso la CIGA Hotel. Certo ero un cuoco, ma avvertii dentro di me questa sensibilità, che non aveva grande appeal in quegli anni. Già allora io parlavo di cibo sostenibile e cibo insostenibile. Quindi mi sento un po’ rivoluzionario e fautore di questa scuola di pensiero che poi si è largamente sviluppata. Certo abbracciare come un credo una cucina laziale è stata una bella sfida perché la cucina romana è una cucina popolare e contadina non hai gli ingredienti che magari possono avere regioni come il Piemonte dove c’è una cultura borghese, aristocratica savoiarda, ma io ci ho creduto. Oggi si parla tanto di territorio ma spesso a sproposito. Prendiamo invece a esempio i francesi il loro terroir significa terra cielo, significa zolla, è termine ancora più estremo del prodotto locale. Qui da noi no, per questo è una parola che per assurdo ho finito per rifiutarla, la sto rifiutando, perché per me è un concetto molto più complesso”.

Bene allora partiamo dal definire che cos’è il territorio?

“Il territorio per me è l’utilizzo di una materia prima, che ci appartiene, che non e stata contaminata, che ha un valore per quello che è l’ambiente, l’ecosistema, la stagionalità, la storicità, l’identità. Il territorio è identità. Ma spieghiamolo meglio. Identità che vuole dire? Non basta aver l’orto. Quando vado nei mercatini, nei farmer a vedere cosa c’è sono molto attento. Devi fare attenzione, che costoro pur mantenendo le loro radici contadine non cadano ingenuamente nella trappola del consumismo. Territorio e consumismo sono due cose che non possono convivere. Oggi il problema della cucina italiana e dell’Italia in genere – e dell’informazione alla società che ne consegue – è la traduzione  del linguaggio. Al linguaggio italiano sono state rubate, soprattutto nel campo del cibo, parole che oggi non hanno più senso . Faccio un esempio: genuino aveva un senso ben definito nel vocabolario italiano. Ma oggi che senso ha questa parola dal momento che te la ritrovi sulle etichette dei prodotti delle maggiori industrie italiane? Oggi aroma naturale lo usano tutti, ma che vuol dire? Nella disciplina legale questo termine è stato reso applicabile a diversi prodotti,… ma aroma naturale per me ha ben altro significato, si ricollega alla natura e non alla produzione di prodotti trattati. Ecco perché dico che territorio e identità sono due cose che devono viaggiare assieme. Molti errori sono stati commessi anche nell’informazione.”

Lei è stato definito l’Alberto Sordi della gastronomia per il suo forte attaccamento alla cucina di tradizione romana, ma è stato anche nominato ambasciatore della cucina italiana nel mondo ed è riuscito, sconvolgendo non poco la rigorosa prassi dei pranzi ufficiali, a far apprezzare alla Regina Elisabetta la “spalla d’abbacchio farcita con menta e pecorino” . Come ha coniugato la gastronomia romana , povera rispetto alle grandi cucine di tradizione italiana, con l’internazionalizzazione che è riuscito a imprimere alle sue ricette e ai suoi ristoranti?

“Premesso che Alberto Sordi mi appartiene per la sua comicità dissacrante, e per come riusciva a sdrammatizzare alcuni elementi caratteristici della romanità. Ebbene devo dire che mi sono spesso ispirato a lui nell’esercizio della mia attività di chef e di organizzatore gastronomico applicando l’arte della sdrammatizzazione in cui era insuperabile. Se la si apprende bene non ci si monta mai la testa, e si resta sempre con i piedi per terra.  Purtroppo da un po’ di tempo a questa parte si sta perdendo un po’ quella che era la vera sostenibilità del cibo e della sua storia Quando vedo persone che si riempiono la bocca di grandi paroloni, e scaricano sui piani delle cucine strani ingredienti, allora con una battuta li dissacro e li riporto con i piedi per terra. Il senso della storia!

Ecco quello che manca agli italiani, non mi stancherò mai di ripeterlo. Si va alla ricerca del nuovo perdendo la dimensione della storia che ci ha reso grandi ed unici. E questo lo possiamo verificare nel cibo. Oggi riscontriamo una grande attenzione per le scuole alberghiere ma se analizziamo il fenomeno ci accorgiamo che non è tutto oro quel che luce. I numeri fanno impressione. Prima a Roma c’era una scuola alberghiera con 50 studenti. Oggi il numero degli studenti in Italia è salito a 20.000. Poi trovi scuole di cucina privata ad ogni angolo. Tutto frutto di una passione improvvisamente dilagante o forse perché molti giovani preferiscono i fornelli ai banchi universitari? Forse c’è grande disperazione. La gente non vuole studiare e che fa? Punta sulla cucina perché vede Masterchef in tv e pensa di assicurarsi soldi e futuro. Ma Masterchef non è un fenomeno che può farci andare avanti in questo settore, non crea cultura, crea solo emulazione, lo dico senza nessuna remora. Quando qualcuno mi domanda che ne pensi di Masterchef ? Io gli rispondo alla Alberto Sordi: a me me lo chiedi? e allora chiedi a Mogol che ne pensa di X Factor! Perché se ci ragioni, Mogol sta alla cucina come la musica sta alle emozioni. Io da Chef non ho mai pensato lontanamente di speculare su una scuola di cucina, perché la cucina è arte e passione, e se non nasci cuoco non lo diventerai mai …”

 Ma un cuoco oggi è solo un fatto emozionale? E solo con le emozioni che un ragazzo un giorno, dando un grande dispiacere a suo padre, rivoluziona tutto nell’antico ristorante di famiglia e crea un impero?

“Eh, no! L’emozione è certamente fondamentale per mantenersi sempre curiosi e con i piedi per terra. Ma oggi il cuoco è un fenomeno molto più complesso di quello di un tempo. Da un lato ha dovuto adeguarsi a tutta una serie di problematiche che riguardano sia gli aspetti economici sia quegli amministrativi. Intanto cominciamo col dire che il cuoco deve essere un ristoratore, e questo non lo dico da oggi lo dicevo già vent’anni fa, perché avevo già intuito allora che la ristorazione tradizionale stava morendo. Intendiamoci, cos’è la ristorazione? E come le maison di haute couture, è come Ferragamo, come Valentino, come Bulgari. Non perde tracciabilità perché si nasce artigiani e anche la ristorazione ha un suo artigianato.

Noi siamo artigiani, compriamo la farina, le uova ci mettiamo l’acqua e facciamo la pasta. Purtroppo però qualcuno la pensa in altro modo. Roma sta perdendo a mano a mano le grandi famiglie che hanno dato lustro alla sua tradizione gastronomica come i Camponeschi, i Ciarla, i Mariani per lasciare spazio ai localari, gestori di locali dove non c’e’ tracciabilità, ma si fa molta sperimentazione per sorprendere. La la cucina ti deve sorprendere invece con effetti semplici , come la musica ti sorprende con effetti semplici. Torniamo a Mogol: se Mogol ha fatto piangere quattro generazioni compresa l’attuale dei trentenni, vuol dire che c’e’ un motivo . E passando in cucina, se il cacio e pepe ha fatto resuscitare i morti c’è un motivo. Parliamo di due note musicali cacio e pepe e non parliamo di cucina new age”. Ma oggi il cuoco deve essere anche imprenditore. Io non rinnego la divisa, la metto quando serve, ma oggi il cuoco si trova sempre più spesso a dibattere in convegni in tavole rotonde. Dirò di più. Senza offesa, forse oggi un ristoratore può avere qualcosa da insegnare a un assessore per quanto riguarda la promozione di una economia diffusa. Nel mio ristorante all’interno del Palazzo delle Esposizioni io no sto lì a fare in cameriere di quart’ordine, sono un imprenditore, ho 60 dipendenti, e ho ben chiare quali possono essere le esigenze e le strategie di una ristorazione all’interno di un museo che fa cultura che si deve confrontare con questa realtà coniugando l’interesse dell’imprenditore privato, con quello dei cittadini, con quello delle istituzioni.

Se il giorno di Natale, in un momento di massimo afflusso turistico, per un motivo sindacale di flessibilità e o di mobilità mi chiudete il museo, allora non e più il ristorante che sta dentro il l museo e il museo che sta dentro il ristorante. Forse difendendo le mie esigenze difendo anche quelle della forza lavoro, del pubblico e dei turisti. Non voglio fare il salvatore della patria ma certo questo è un paese che non si muove secondo logiche di redditività e di promozione del suo patrimonio e quindi della sua economia. E allora eccomi a Vallefredda dove mi sono creato un mio ufficio dopo trenta anni di attività, un bunker come lo chiamo io, che potrebbe essere il mio buen ritiro per i prossimi trent’anni e invece no. La mia via – e qui fa una pausa coltivano evidentemente un retro pensiero oggi sconosciuto, ma domani chissà – è tutto un continuo ripartire, non c’e’ mai un punto di arrivo …”

Lei quando parla di cucina. ricorre spesso al genere letterario della contaminazione, mischiando musica, arte, filosofia …

“Certo contaminazione intesa come strumento – non letterario – per ricercare le diverse sfaccettature che compongono una realtà. Con i miei ragazzi parlo spesso di calcio, sono calciofilo, amo il calcio, mi sento un poeta del calcio, di più, sono un filosofo del calcio. Ma è la stessa cosa che parlare di cucina. Se sono 150 anni che si gioca il calcio in 11 che cosa può fare un uomo, in una partita di calcio con 11 uomini, dove c’è un portiere da sempre, dove c’è una difesa da sempre? Può ricorrere alla fantasia. Io oggi potrei fare catenaccio, zona , doppia zona mista e doppia zona metodista. Ecco come io contamino il cibo lo contamino abbracciando altre arti, arte contemporanea, arte figurativa.

Picasso ha creato il cubismo e qualcuno ha sostenuto che il cubismo sta all’arte come la nouvelle cuisine alla cucina e io sono stato uno di quelli nel sostenere questa equazione. Poi quando ho scoperto che i quadri di Picasso erano più belli di quelli di Raffaello, mi sono ricreduto e ho scoperto il significato della contaminazione, come ricerca, come studio. Io pure realizzando il mio Resort ho contaminato questa zona, un’area, un parco, ma lo contamino e lo tutelo, la tradizione per me è anche tradimento, tra il dire e il fare c’e di mezzo il tramare, quindi io tradisco mia madre per rispettarla, perche probabilmente il consumismo culinario l’eccesso di economia ha contaminato anche una donna di 80 anni che ha scoperto il supermercato dove io non ci metto piede”

Lei parlando della sua vita ha usato una espressione molto interessante, ha detto io ho una vita pubblica, una vita privata e una vita segreta. Come si confrontano queste tre vite con la sua attività?

“Questi aforismi compulsivi – me ne vengono spesso molti – sono frutto della rabbia che per me è piacere, e passione e agonismo. Chiariamo subito: la mia vita segreta non è il night con quattro escort ma ben altro. Partiamo dalla vita pubblica è quella di Antonello Colonna che va in televisione, si legge sui giornali sulle riviste, che partecipa ai dibattiti, che prende una stella che prende due stelle. La vita privata è la famiglia, io, mia moglie, mio figlio, mio nonno, mio padre. La mia vita segreta è l’uomo, è Antonello Colonna che va conosciuto probabilmente frequentandolo, casomai seduti in poltrona con un buon bicchiere di vino e un buon sigaro. Oggi pero accade che la mia vita pubblica si leghi sempre più alla vita segreta bypassando la vita privata,. D’altronde la famiglia cresce, i figli crescono le attenzioni sono le stesse ma leggermente diverse. E allora  l’uomo alla soglia dei sessant’anni che fa? Se continua a generare energie, passioni e agonismo ecco che la vita pubblica si va a incrociare con la vita segreta dove albergano le vere passioni e le vere emozioni, tutto quello che di me non si legge sui giornali, dove ci sono coloro che improvvisamente mi vedono nei mercati alla ricerca di prodotti genuini, coloro che mi vedono cucinare la notte di Natale alla Caritas e non se l’aspettavano, dove c’è la mia religiosità, le mie credenze che oggi si rapportano e si confrontano con tutto quello che io ho dato alla vita pubblica che così si incrocia con la vita privata”.

E il punto di incrocio è Vallefredda?

Certo ma attenzione, Vallefredda non è un punto di arrivo ma una nuova ri-partenza!

Se non è come dice un’ultima spiaggia, cos’è un eremo, un laboratorio di nuove proposte gastronomiche , un invito a rimeditare sul senso della vita come una specie di Ashram orientale dove trovare nuovi equilibri in mezzo alla natura, dove immergersi in una sorta di neo pratiche spirituali, di meditazione dove ritemprare anima e corpo?.

“E’ un microcosmo, è la somma delle tre mie vite, pubblica, privata e segreta, dove c’è ricerca di idee, apertura mentale, abbattimento di vecchi equilibri, superamento di barriere spaziali e temporali, desiderio di nuova conoscenza di realtà e di noi stessi”.

Provocatore, dai modi sbrigativi, concreto fino all’indisponenza, anarchico – anche se aristocratico – uno che si eccita nel confronto e nello scontro, cosa picconerebbe dei suoi colleghi famosi ?

 “Picconerei partendo dalle istituzioni ma non per cadere nella trappola terroristica alla Grillo che non serve a niente, perché non costruisce ma demolisce solo. Non è cosi, non si può pensare di risolvere i problemi di questo paese picconando,o rottamando. Bisogna che ognuno di noi rappresenti nella società quello che è il buon senso , io mi sono permesso di dire che tutti questi fenomeni che accadono, queste alluvioni sono anche un po’ colpa nostra. Se io sto qui e vedo che un tombino si ottura di foglie non sto li a guardare , non mi limito a chiamare i vigili che poi chiamano il sindaco che poi chiama il prefetto che poi chiama la protezione civile.

No, mi alzo e libero quel tombino anche se non è mio compito. Se ognuno di noi attuando, il principio giurisprudenziale del buon padre di famiglia, proteggesse meglio … la propria protezione civile, che poi è la propria civiltà, darebbe un forte contributo alla crescita del senso civico nazionale. Quindi mi sento un picconatore sano che non fa una rivoluzione come i Forconi, che poi si sono spenti sul nascere, ma parte dalla casa, dal suo bunker, porta avanti dal suo eremo una rivoluzione sana a metà strada fra un Robin Hood e un san Francesco. Diceva mio padre: il governo siamo noi, le tasse siamo noi, ci siamo mangiato tutti noi, ci siamo rubato tutto noi, i politici hanno rubato ma abbiamo rubato anche noi eleggendoli, ognuno di noi ha rubato qualcosa all’ambiente, alla vita, al paesaggio al territorio, al mondo. Ecco credo che sia arrivato il momento di riflettere su quello che abbiamo fatto e soprattutto su quello che dobbiamo fare per chi verrà dopo di noi”.

Siete tutti avvertiti: Antonello Colonna ne sta studiando una a Vallefredda

* Articolo pubblicato su Il Ghirlandaio per gentile concessione dell'autore

 

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