"C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico". È la tensione tra (possibili) partner di Governo, che monta e scema a ondate e deve sconcertare anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: difficilmente, altrimenti, si sarebbe avuto l’incontro improvviso e non in agenda con il Presidente del Consiglio bi-incaricato Giuseppe Conte – nonostante i tentativi di derubricarlo a prassi ordinaria.
Né il Quirinale deve aver gradito più di tanto l’assenza dei big Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti dal successivo colloquio dell’avvocato del popolo con le delegazioni M5S e Pd. A sparigliare le carte era stato infatti il capo politico pentastellato con l’ennesimo diktat sugli ormai celebri 20 punti programmatici che il Partito Democratico dovrebbe sottoscrivere a scatola (semi)chiusa.
Praticamente una resa senza condizioni – e non è un caso che i dem siano andati su tutte le furie per la modalità, non per i contenuti, su cui tra i due partiti non dovrebbero registrarsi distanze incolmabili. Tanto che il Governatore del Lazio ha fatto spallucce al sobrio appello con cui l’ex Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda lo invitava a ripensare la possibile alleanza («apriamoli come le cozze»). E tuttavia, uscendo dalla (ennesima) riunione con il bis-Premier, i capigruppo Pd hanno nuovamente posto l’accento sulla necessità di un chiarimento.
Anche perché, nel frattempo, a spargere benzina sul fuoco ci ha pensato Alessandro Di Battista, che ogni tanto riesce a sfuggire al bavaglio impostogli per evitare che faccia danni con le sue esternazioni – la specialità della casa. Nel caso in essere, Dibba ha fondamentalmente criticato il Partito Democratico per aver osato parlare di ultimatum del MoVimento, aggiungendo che l’eventuale fallimento dei negoziati sarebbe colpa dei dem. Mancava solo che precisasse che dovrebbero genuflettersi e ringraziare (e ci è andato vicino), poi il delirio sarebbe stato completo. Di fronte a un “ragionamento” del genere, che altro si può fare se non allargare le braccia? È semplicemente da applausi. O da manicomio.
Farneticazioni a parte, appare poco probabile che il Capo dello Stato accetti il varo di un Conte-bis che rischia di replicare, se non di amplificare la litigiosità del Conte-semel. Un Governo che si regga solo sul doppio terrore di venire spazzati via dal giudizio degli elettori e di vedere il trionfo della Lega di Matteo Salvini non darebbe alcuna garanzia – anche se avrebbe il plauso di certi poteri forti.
A Conte l’arduo compito di tentare una sintesi tra le posizioni, spesso contrapposte, dei due azionisti di riferimento dell’eventuale esecutivo rosso-giallo. Con lo sguardo del Colle sempre puntato addosso, come l’occhio di Sauron sulla Contea – che è anche appropriato. E la spada di Damocle delle urne sempre e costantemente affacciata all’orizzonte.
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