Healthy Recovery, l’(assurdo) appello a combattere il Covid-19 con il clima
Oltre 350 organizzazioni che rappresentano più di 40 milioni di operatori sanitari chiedono un mondo più verde: vaneggiando che solo così si supererà la crisi da coronavirus
L’ultima frontiera del vaneggiamento collettivo si chiama Healthy Recovery. Locuzione inglese che letteralmente sta per “sano recupero”, cosa che ha perfettamente senso nel momento in cui dà il titolo a un appello sull’emergenza Covid-19. Ma che perde qualsiasi valore nell’attimo in cui lega la «vera guarigione» (sic!) a una facezia come la lotta ai cambiamenti climatici.
L’appello per la Healthy Recovery
Il 26 maggio è stato diffuso un appello indirizzato ai leader del G20 affinché, mediante i pacchetti di stimolo economico, investano saggiamente nella salute pubblica. La lettera è stata firmata da oltre 350 organizzazioni che rappresentano più di 40 milioni di professionisti del settore sanitario provenienti da 90 differenti Stati. Che è comunque diverso dal dire, come hanno artatamente fatto vari media nostrani, che metà dei medici del mondo ha scritto ai venti Grandi.
La dichiarazione si apre con un vago riferimento a un «approccio pragmatico e basato sulla scienza per gestire la pandemia di Covid-19». E prosegue con la testimonianza degli effetti nefasti del virus, dovuti anche al «sottofinanziamento dei servizi sanitari nazionali». E fin qui tutto bene.
Poi, però, iniziano gli sproloqui correlati alla «vera guarigione». La quale «non permetterà chel’inquinamento atmosferico continui a contaminare l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo. Non farà avanzare inesorabilmente cambiamento climatico e deforestazione, scatenando potenzialmente nuove minacce alla salute di popolazioni vulnerabili».
Prese singolarmente, sarebbero anche frasi di buon senso: il problema è che non c’entrano niente con l’epidemia in corso. Il che non stupisce neppure più di tanto, considerando che dai seguaci di Ippocrate non ci si aspetta che siano anche esperti ecologisti.
Magari, però, dopo il successo mediatico dell’evidentemente autodidatta illetterata scandinava chiunque si sente legittimato a esprimere un parere sul tema. E, ça va sans dire, proprio come la “Pippi Calzelunghe de noantri” anche gli operatori sanitari si lanciano in consigli economici. Obiettivo primario, manco a dirlo, i combustibili fossili.
Da medici a economisti
I Governi, sostiene infatti la missiva, dovrebbero spostare la maggior parte degli attuali sussidi «verso la produzione di energia rinnovabile pulita». In tal modo, «la nostra aria sarebbe più sana e le emissioni climatiche si ridurrebbero drasticamente». E addirittura, concludono gli archiatri, il Pil mondiale guadagnerebbe «quasi 100.000 miliardi di dollari da qui al 2050».
Quest’ultima rodomontata deriva da un rapporto previsionale – pardon, un outlook – di un ente assolutamente neutrale quale l’IRENA. Acronimo che sta per International Renewable Energy Agency, ovvero Agenzia Internazionale per l’Energia Rinnovabile. E che nessuno osi azzardare che potrebbero esserci conflitti d’interesse.
Il report stima anche (benché questo insignificante dettaglio sia curiosamente passato sotto silenzio) che la decarbonizzazione richieda investimenti «fino a 130.000 miliardi di dollari». Naturalmente sull’unghia, a differenza dei fantomatici guadagni.
In compenso, i posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili si quadruplicherebbero, arrivando (globalmente) «fino a 42 milioni». Cioè poco meno degli abitanti della sola Spagna e quasi 20 milioni in meno rispetto alla popolazione italiana. Ma, di nuovo, guai a chi dovesse insinuare la possibilità di un deficit di imparzialità.
Il riflesso della Healthy Recovery
La missiva appena pubblicata riflette il discorso di apertura della 73sima Assemblea mondiale sulla Salute dell’Oms tenuto dal Direttore Generale Tedros Adhanom Ghebreyesus. Anche il leader dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva infatti parlato di una Healthy Recovery, con l’aggiunta dell’aggettivo green per esplicitarne ancor di più l’ideologizzazione.
Non a caso, i due messaggi concordano nel sollecitare interventi in «settori chiave quali sanità, trasporti, energia e agricoltura». Interventi, naturalmente, costosissimi e del tutto demagogici, in quanto al servizio di una fantasia collettiva. Che infatti l’uomo abbia un impatto rilevante su un sistema complessissimo come il clima è e resta una congettura del tutto indimostrata.
Problemi a monte e a valle
Peraltro, la World Health Organization sembra avere qualche problemino anche con le sue stesse premesse. Per dire, il manifesto afferma che Paesi come l’Italia «hanno messo, accanto alla salute, lo sviluppo verde al cuore delle strategie di ripresa dal Covid-19». Beh, qualunque cosa voglia dire l’espressione green development, di certo non ve n’è (stata) traccia nei Dpcm del bi-Premier Giuseppe Conte. A meno che non fosse un’allusione ai portafogli degli Italiani, nel qual caso il Signor Frattanto sarebbe già ben oltre metà dell’opera.
Anche per quanto riguarda la necessità di spostarsi maggiormente a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici, è certamente un nobile auspicio. Che tuttavia si scontra con la realtà, cosa di cui anche Ghebreyesus non faticherebbe ad accorgersi se facesse, per esempio, una gita a Roma.
Quanto poi all’obiettivo «di contenere il riscaldamento (globale) al di sotto di 2°C», l’Oms può dormire sonni tranquilli. Non siamo infatti neppure lontanamente vicini all’optimum climatico dell’Olocene verificatosi circa 8.000 anni fa. E, qualora la situazione dovesse cambiare, sarebbe a causa dell’attività solare, di cambiamenti dell’orbita e dell’asse terrestre e, in misura minore, dei vulcani. Nulla che la WHO o qualsivoglia eco-fanatico sia in grado di influenzare, almeno fino a prova contraria.
Inquinamento e lockdown
Torniamo infine alla questione principale, l’inquinamento. Detto che non ha alcuna correlazione, neanche minima, con il virus, è comunque lecito chiedersi quale impatto abbia avuto il lockdown sul fenomeno. Dopotutto, dopo quasi tre mesi di quarantena su scala pressoché planetaria, i dati sono abbastanza cristallizzati, e ci si aspetterebbe un miglioramento generale.
Ebbene, la scienza ci dice che non solo non è così, ma addirittura i livelli di alcuni inquinanti sono aumentati. Già in aprile, per esempio, un’analisi condotta su dieci metropoli mostrava come, a Roma, le polveri sottili fossero cresciute del 30% in un mese.
Ora, poi, sono usciti i risultati di uno studio che si è concentrato sullo spauracchio CO2. Evidenziando che la concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera non è cambiata. Anzi, secondo i ricercatori non ce n’è così tanta da 800.000 anni. Cioè da circa mezzo milione di anni prima che Homo sapiens facesse la sua comparsa.
Gli scienziati hanno quindi cercato di salvare in corner il teorema asserendo che il calo delle emissioni dovrebbe essere più lungo per produrre effetti significativi. Ma la realtà è che, come magistralmente spiegato da un luminare come Antonio Zichichi, «l’azione dell’uomo incide sul clima per non più del dieci per cento. Al novanta per cento, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali, ad oggi, gli scienziati non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future».
La vera Healthy Recovery
Il che, sia chiaro, non significa affatto che l’uomo non debba aver cura del pianeta Terra. Ma deve farlo perché è il custode del Creato e un giorno dovrà renderne conto al Creatore. Perché è chiamato «ad esercitare un governo responsabile per custodirlo», come puntualizzava Papa Benedetto XVI, «trovando le risorse necessarie per una esistenza dignitosa di tutti».
Vale a dire che, se si vuole realmente una Healthy Recovery, bisognerebbe anzitutto bandire quell’idolatria biocentrica che considera l’essere umano alla stregua di un parassita. Perché una vera guarigione potrà essere davvero possibile solo quando cesserà finalmente la dittatura di decenni di eco-balle.