Sono andata a letto tardi, alle tre del mattino per la precisione, per rivedere C’Era Una Volta in America nella versione integrale, restaurata e con le scene tagliate inedite, uscita nei cinema il 18 ottobre 2012. Un’esperienza taumaturgica. La premessa necessaria è che il capolavoro di Sergio Leone fu bistrattato dalla produzione americana quando nel 1984 uscì nelle sale americane nell’edizione montata e voluta dal suo produttore Arnon Milchan, per la durata complessiva di poco più di due ore e mezza e con le sequenze disposte in ordine cronologico; fu un sacrilegio(pare che lo stesso Leone non volle mai vedere questa edizione). Per fortuna, in Europa uscì nell’edizione che conosciamo e Sky lo ha riproposto nella versione succitata. Beninteso, le scene inedite non aggiungono molto altro, se non confermare quel capolavoro che è.
C’Era Una Volta in America è uno di quei rari film che anche senza audio varrebbe la pena vedere, perché il cinema assoluto è pura immagine. La sequenza dei protagonisti-bambini vestiti da adulti con abiti eleganti ( e giocano anche a fare gli adulti) che scorrazzano felici e inconsapevoli di ciò che accadrà, subito dopo aver inserito i soldi nella valigia dell’armadietto e stilato il patto di amicizia e di fiducia del gruppo, nel ‘totale’ col ponte di Brooklyn che fa da sfondo, basterebbe. Tuttavia, quella sceneggiatura articolata come un flusso di coscienza e quasi con delle madeleine proustiane, attraverso frequenti flash back e flash forward, mette insieme più piani narrativi e più chiavi di lettura, evocando una nostalgia che si profonde lungo il corso dei quasi quarant’anni in cui si snoda la storia del film.
Quali siano le sequenze più toccanti ed emozionanti, è un bel problema, data la varietà di possibilità. La morte di Dominic che dirà soltanto: ‘Sono inciampato’ e il conseguente omicidio, il primo, di Noodles che uccide Bugsy, è fra queste. In quel preciso momento si consuma, con il delitto e la vendetta, il passaggio dall’età infantile all’età adulta con la conseguente perdita della purezza. La scena in cui Deborah-bambina recita il cantico dei cantici a Noodles che lo riprenderà, a distanza di anni, quando la rivedrà uscito dal carcere, sono di un lirismo evocativo ineguagliato. Salvo poi cambiare tutta l’atmosfera del film e sprofondare nella bestialità umana della violenza di Noodles che la stupra perché capisce che non sarà mai sua.
La evidente Bellezza (non a caso la lettera maiuscola) delle sequenze si dà nel suo apparire sullo schermo ed eleva il cinema ad arte imperitura. La pura poesia della sequenza in cui Noodles, al cospetto di Max- senatore, lo rivede ragazzino sorridente come la prima volta sul carretto quando gli soffiò il farlocco ubriaco (forse è già un ‘segno’ pure quello) non può non essere un esempio di ciò che intendo per compiutezza filmica.
La musica, diegetica ed extradiegetica( Leone gioca molto su questo anche in altri suoi film), è un altro protagonista irrinunciabile all’interno della narrazione.
Da Yesterday che suggella la nostalgia ad Amapola che evoca quell’amore perduto e mai vissuto tra Noodles e Deborah che ricorda tanto la Daisy di Gatsby. Su tutto, però, la struggente colonna sonora del Maestro Ennio Morricone a cadenzare ogni emozione, ogni momento ogni sentimento.
Nel capolavoro di Leone vive una tensione narrativa che è fatta di dinamicità e che, oltre ai vari Scorsese e Coppola, mi ha fatto tornare in mente la costruzione narrativa di alcuni fra i migliori film di Tarantino (Pulp Fiction e Kill Bill).
Ci sono film dentro allo stesso film. Il colpo di scena relativo a Max,preannunciato da numerosi ‘indizi’ come la valigia piena di soldi di Noodles maturo con la scritta: “per il tuo ultimo lavoro”.
C’Era Una Volta in America è un film sulle illusioni e la ricerca del tempo perduto, quelli di Noodles, ma anche quelli di Leone per quel cinema che non c’era già più e per quel tempo che non gli è stato dato. Però, dopo un film di siffatta fattura, Leone avrebbe mai potuto creare altro? Credo che gli artisti muoiano quando esauriscono tutto quello che hanno da donarci e Leone continua a darci molto, a dispetto di tanto cinema italiano degli ultimi vent’anni, la maggior parte del quale di un’afasia aberrante, del tutto inutile.
Ignorato dall’Academy Awards, come spesso accade ai capolavori e ai grandi autori( anche Charlie Chaplin per Luci della Città), resta opera imprescindibile del cinema internazionale di tutti i tempi.
L’illusione di Noodles di aver creduto a quel sospiro d’amore e a quell’amicizia ( illusioni proiettate su Max e su Deborah), orfana di un affetto profondo, ci restituisce un’umanità sgretolata. Tradito da se stesso e da un mondo che non c’è più e , forse, non c’è mai stato.
E, tuttavia, non vorremmo mai vedere morire Max, anche se è un traditore. E invece sì, con un altro ‘coup de theatre’. In quell’eterna sospensione che si consuma tra il visto e il celato o, per meglio dire, l’evocato. Così come la sequenza finale, in perfetta forma circolare, in cui il primo piano di Noodles torna indietro nel tempo in un tempo bergsoniano che nulla ha a che fare col tempo becero dell’orario in cui prendiamo un tram. Con quel sorriso che lascia spazio al conforto.
L’autore coniuga il puro talento con l’elemento ‘popolare’. Parla di noi, di tutti. Perché, per parafrasare Lester Bangs quando definiva cos’era la grande musica, il grande cinema ti culla, ti fa sobbalzare, ti commuove e ti strazia.
Poco importa, se qualche critico e qualche ciarliero hanno provato a smontarlo. Per certi versi, con le dovute distanze, anche il Tornatore di Nuovo Cinema Paradiso è figlio di quel Noodles-bambino che guarda Deborah danzare dalla fessura del bagno, come il piccolo totò guardava il cinema, come gli occhi di Ingmar Bergman che racconterà nella sua autobiografia, “Lanterna Magica”(ed. Garzanti), del regalo più bello, una lanterna magica appunto, che con le sue ‘ombre’ cambiò il corso della sua vita. Tutti ‘fantasmi della memoria’ eppure così vivi. Così come lo sono quelli di Noodles e quelli del cinema. E, forse, anche quelli di Sergio Leone che dichiarò:
“C'era una volta in America non e' un film sui gangster. E' un film sulla nostalgia di un determinato periodo, di un determinato tipo di cinema, di una determinata letteratura. Sono certo di aver fatto "C'era una volta il mio cinema" piu' che C'era una volta in America".
Precorritore dei suoi tempi, generatore di suggestioni, ricordi e sogni e pieno di intuizioni come solo un capolavoro e un genio sanno essere.
Per tutto il resto, c’è Neri Parenti.
*Già pubblicato sull'Huffington Post, per gentile concessione dell'autrice.
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