Abbandoniamo Tusculum, i suoi resti, la sua storia, ritornando sulla via Latina per continuare il nostro viaggiolungo di essa e dirigendoci a circa 10 chilometri verso l’antico mons Algidus, il monte Algido, teatro di tre secoli di battaglie fra i Romani e le popolazioni dei Volsci ma soprattutto degli Equi che occupavano la zona a est di Roma e che fecero dell’Algido il loro baluardo. In realtà tutta la zona, delimitata dall’importante passo dell’Algido, attraverso il quale passò anche Annibale, fu un importante crocevia di scambi commerciali ma anche di spostamenti sin dall’epoca arcaica e ce ne da notizia Dionigi di Alicarnasso; dal V secolo a.C., invece, l’Algido fu un avamposto e roccaforte degli Equi, alleati dei Volsci contro Roma, e il suo nome fu con molta probabilità coniato per le caratteristiche climatiche particolarmente rigide del luogo; Orazio infatti ci riporta che il monte era sacro a Diana e ne fa derivare il nome da algor, appunto freddo e gelo, affermando come fosse nevoso oltre che coperto di querce e di elci, d’altra parte è il monte più alto della catena montuosa dell’Artemisio.
Gli stessi autori dell’antichità come Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso, insieme a Strabone ed Ovidio, affermavano, inoltre, che vi fosse un piccolo centro, un oppidum, di nome Algidum. In realtà non si conosce l’esatta ubicazione del centro di Algidum e gli studiosi hanno elaborato varie teorie sulla base delle scarne indicazioni in loro possesso e provenienti soprattutto da Strabone, che cita la piccola città di Algidum posizionandola lungo la via Latina, e dell’abate Riccy il quale, storico del XVIII secolo, pone il centro a settentrione di Albalonga. Oggi potrebbe essere individuato nei pressi di Monte Castellaccio tra Rocca Priora e Palestrina, con una zona a valle – la zona oggi denominata Pratoni del Vivaro, rientrante in parte nel comune di Velletri e in parte di Rocca di Papa – caratterizzata dalla presenza di un grande lago, non più esistente ma confermato da vecchia cartografia e da studi geologici recenti, che potrebbe essere identificato con il lago Regillo; dalla cartografia non emerge soltanto la presenza del lago, in parte ancora presente negli anni ’30, ma anche della via Latina che attraversava tutta la valle, valle menzionata anche dagli antichi autori i quali riportano della battaglia avvenuta nei pressi del lago Regillo e svoltasi in una pianura attraversata in modo longitudinale da una strada e fiancheggiata da entrambi i lati da monti; d’altra parte è recente il ritrovamento di alcune chiuse per la gestione dell’acqua proveniente dal lago che veniva distribuita alle popolazioni latine, in linea con quanto descritto da Dionigi di Alicarnasso.
Quella degli Equi era un’antica popolazione, che occupava un’area oggi compresa fra il Lazio e l’Abruzzo, Tito Livio ne riporta l’ostilità nei confronti di Roma già a partire dai primi tre secoli di vita dell’urbe; molti oppida degli Equi furono, infatti, distrutti da Tarquinio Prisco tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C. come ci tramanda Strabone, mentre Diodoro Siculo afferma che il loro centro principale sarebbe stato conquistato una prima volta dai Romani intorno al 484 a.C. e, nuovamente, circa novanta anni più tardi ma non si arresero mai definitivamente fino al termine della seconda guerra sannitica, secondo quanto riportato da Livio; grazie a Cicerone, inoltre, sappiamo che soltanto allora avrebbero ricevuto una forma limitata di libertà. I centri degli Equi erano numerosi e tra questi i principali erano sicuramente Nersae, presso l’attuale Nesce nel comune di Pescorocchiano, Cliternia oggi Petrella Salto, Tora, sita nei pressi dell’attuale S. Anatolia, tutte in provincia di Rieti, Ciciliano, Roviano, Bellegra, Canterano, Olevano Romano, Roiate, Riofreddo dove è stata identificata una necropoli risalente al periodo tra VI e V secolo a.C. in provincia di Roma e Trevi nel Lazio in provincia di Frosinone.
È incredibile pensare a come Roma, singola città come tante altre, sia riuscita a divenire la potenza mondiale e imperiale che è stata se ci si ferma a valutare questo periodo della storia in cui Roma era attraversata da una stabile tensione sociale e da continui scontri interni, tra patriziato e plebe, che si riflettevano non solo sull’andamento politico della città ma anche sulla sua stabilità militare stante il continuo ostacolare, da parte dei tribuni, la leva e la chiamata alle armi della plebe come ritorsione o strumento di ricatto-estorsione per ottenere quelle misure legislative che erano alla base degli stessi scontri sociali; a ciò si aggiunga la continua tensione militare causata dai frequenti, e spesso contemporanei, attacchi da parte dei popoli confinanti che davano luogo a guerre intervallate da brevi periodi di pace frutto di accordi e di tregue difficilmente rispettate dalle stesse popolazioni belligeranti. Gli Equi, i Volsci, gli Etruschi, insieme a molte altre popolazioni di tutta l’area erano in continua lotta con Roma che si presentava come la città con mire espansionistiche che, a volte, si realizzavano con accordi di pace e alleanze mentre altre volte con guerre continue portate avanti su più fronti.
Le notizie più antiche che Tito Livio ci fornisce, riguardo alla guerra con gli Equi, risalgono al 465 a.C., all’epoca del secondo consolato di Quinto Fabio Vibulano, quando il console sconfisse gli Equi, che si erano ritirati sul monte Algido, durante la guerra condotta contro di essi; intanto in questo stesso periodo a Roma sorsero, nuovamente, forti contrasti tra senatori, plebei e proprietari terrieri; i primi, infatti, appartenenti al patriziato tendevano sempre a mantenere inalterato il loro potere proveniente dalla loro ricchezza prodotta anche dai vasti possedimenti terrieri, i secondi cercavano di ottenere maggiori diritti anche attraverso l’assegnazione di terre e i terzi erano timorosi di perdere parte delle loro proprietà; Quinto Fabio propose, allora, di distribuire alla plebe la porzione di terre sottratte ai Volsci dal console Tito Quinzio Capitolino Barbato, l’anno precedente, quando venne fondata una colonia ad Anzio. Soluzione, quest’ultima, che se da un lato riportò una apparente pace sociale, dall’altro lato scontentò la plebe che si sentiva allontanata da Roma tanto che, come ci riporta Dionigi di Alicarnasso, furono pochi i plebei che accettarono, tanto che una parte delle terre venne distribuita agli alleati Latini ed Ernici e un’altra parte rimase agli Anziati.
Intanto nello stesso periodo gli Equi furono gli autori di numerose razzie nei territori romani facendo insorgere una forte paura e un grande caos tra i contadini; il console Tito Quinzio fu chiamato a porre rimedio a quella confusione che si era diffusa e, messosi sulla tracce dei razziatori, li fece finire nella trappola predisposta da Quinto Fabio che li sconfisse definitivamente. È sempre Livio che ci tramanda la notizia che nello stesso periodo si concluse un censimento in base al quale sappiamo che Roma contava 104.714 cittadini, numero dal quale erano esclusi orfani, vedove e schiavi.
Tito Livio ci racconta come il periodo in cui vennero eletti consoli Quinto Fabio Vibulano, per la terza volta, e Lucio Cornelio Maluginense fu all’insegna del disordine. Quell’anno venne effettuato un nuovo censimento della popolazione, ma a causa della presa del Campidoglio e della morte del console fu considerato un atto sacrilego il concluderlo con il tradizionale rito di purificazione. Intanto, per come riporta Livio, gli Equi, mandato avanti il meglio dei loro giovani, con un’improvvisa sortita notturna si impossessarono della città di Tuscolo e con il resto dell’esercito si attestarono non lontano dalle mura della città per impegnare su più fronti le truppe nemiche. Il console Quinto Fabio, che aveva appena messo in rotta i Volsci nella zona di Anzio, quando fu raggiunto dalla notizia che gli Equi avevano preso la rocca di Tusculum vi si diresse immediatamente dando vita ad una guerra che durò alcuni mesi. Con parte dell’esercito il console assediava l’accampamento degli Equi i quali dopo essere ridotti allo stremo delle forze si diedero ad una fuga vergognosa cercando di riparare in patria; anche in questo caso, come in altri, il console romano li intercettò sul monte Algido uccidendoli dal primo all’ultimo.
Continuando a leggere Tito Livio scopriamo come, ancora una volta, l’Algido è al centro della guerra tra Romani ed Equi; nel 458 o 457 a.C., infatti, ci fu una delle battaglie più famose. Inizialmente gli Equi furono in vantaggio in quanto riuscirono ad assediare le truppe romane comandate dal console Lucio Minucio Esquilino Augurino che, pur essendosi recato con le truppe sul mons Algidus, non aveva attaccato e si era fatto sorprendere nel suo accampamento durante la notte facendosi circondare e prendere d’assedio. La situazione fu risolta da Cincinnato che, dopo essere stato nominato dittatore pur essendo dedito alla coltivazione delle proprie terre al di là del Tevere, raccolse un esercito e giunto sul monte Algido circondò a sua volta con una palizzata i nemici che presi fra due fuochi, e senza possibilità di fuga, furono sconfitti.
Nel 455 e nel 450 a.C. gli Equi attaccarono ancora Tusculum, alleata di Roma, venendo sconfitti la prima volta e avendo la meglio sui romani la seconda volta; l’anno successivo, nel 449 a.C., le truppe romane, guidate dal console Lucio Valerio Potito sconfiggono, sempre sull’Algido, questa volta una coalizione di Equi e Volsci, vendicando la sconfitta subita in precedenza e conquistando un notevole bottino come era accaduto nel 455 a.C. Altri furono i tentativi di rivalsa da parte degli Equi sui Romani ma una delle ultime importanti battaglie di cui si ha notizia avvenne nel 431 a.C., sempre sul monte Algido, in cui gli Equi, guidati da Vezzio Messio, furono di nuovo sconfitti dal dittatore Aulo Postumio Tuberto, che probabilmente mise fine alle loro velleità per decenni; a partire da questo periodo lo spirito bellicoso degli Equi, infatti, sembra affievolirsi. Nel 389 è ricordata una vittoria di Camillo sugli Equi presso Bola, antica città del Lazio fra Palestrina e Monte Compatri, decaduta già alla fine della Repubblica e scomparsa del tutto durante l’Impero.
Grazie a Strabone e Tito Livio sappiamo che nel 304 a.C. fu fondata la colonia romana di Carseoli, oggi nel comune abruzzese di Oricola che verrà popolata da 4000 coloni romani, e nel 303 a.C., durante il consolato di Lucio Genucio Aventinense e Servio Cornelio Lentulo, i romani fondarono nel territorio degli Equi la colonia di Alba Fucens, popolandola con 6.000 coloni e in quello che era stato territorio dei Volsci la colonia di Sora con 4.000 coloni.
L’anno successivo, sotto il consolato di Marco Livio Dentre e di Marco Emilio, gli Equi ripresero le ostilità e tentarono di espugnare in ogni modo la colonia non potendo tollerare la presenza di una cittadella fortificata romana nel proprio territorio; Alba, tuttavia, resistette senza che fosse necessario l’intervento di Roma nonostante questo evento creò tra i romani apprensione pur sembrando impossibile che gli Equi, nel loro misero stato, avessero affrontato la guerra basandosi soltanto sulle proprie forze; per questo motivo venne nominato Gaio Giunio Bubulco Bruto dittatore, per far fronte alla insurrezione degli Equi, che furono sconfitti al primo scontro.
Alla fine del periodo repubblicano gli Equi risultano organizzati in due municipia, il cui territorio comprendeva l’alta valle dell’Imele e parte della valle del fiume Salto, zona oggi conosciuta come Cicolano nella bassa provincia di Rieti. Le mura poligonali che esistono in considerevole quantità non solo in questo distretto ma anche nei paesi già indicati, rappresentano una notevole testimonianza della loro cultura; inoltre alcuni elementi epigrafici indicano che si trattasse di una comunità socialmente abbastanza evoluta se, d’altro canto, la tradizione vuole che al Re equicolo Ferter Resius venga attribuita l’introduzione a Roma, al tempo del re Numa od Anco Marzio, dello ius fetiale, il diritto dei feziali, attraverso il quale venivano nominati dei sacerdoti, i feziali, il cui compito era quello di regolare i rapporti con le popolazioni confinanti, tanto nei trattati di pace quanto nelle dichiarazioni d guerra. Questa notizia viene riportata anche da un’iscrizione rinvenuta su un cippo trovato a Roma sul colle Palatino e conservato nell’omonimo museo.
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