I vignaioli omicidi
Una giustizia superiore
La parabola dei vignaioli omicidi (Mt. 21, 33-43), che ascolteremo domenica prossima nella liturgia eucaristica domenicale, possiede in sé tanta di quella efficacia da raggiungere il suo fine: far giungere un avvertimento ai nuovi membri del popolo eletto, presentando loro come in uno specchio il destino di coloro che essi hanno sostituito nel disegno di Dio. Questo avvertimento è rivolto alla chiesa: la sua giustizia deve superare quella degli scribi e dei farisei. Un tale insegnamento conserva tutta la sua attualità.
La vicenda narrata dalla parabola ha come presupposto le condizioni economiche della Palestina del primo secolo dopo Cristo, dove grandi proprietà terriere appartenevano a latifondisti stranieri, i quali davano in affitto le loro tenute anche a gruppi organizzati di fittavoli. Secondo una diffusa forma di locazione, una determinata parte del raccolto doveva essere consegnata al padrone, il quale si garantiva che i suoi diritti fossero rispettati inviando suoi fiduciari. Lo stato d’animo dei contadini della Galilea nei confronti dei padroni stranieri era di depressione, talvolta di ribellione. Tuttavia, anche l’evangelista Matteo trasferisce la vicenda su un piano più alto di comprensione: la parabola diventa un compendio della storia di Dio col suo popolo.
Dunque, un ricco proprietario terreno ha piantato una vigna, l’ha coltivata e circondata di cure, l’ha affidata a dei contadini nell’attesa di raccoglierne frutti abbondanti. Al tempo della vendemmia il padrone del vigneto invia i suoi servi a ritirare i frutti; ma i vignaioli si comportano in modo vile e ignobile: maltrattano gli inviati, giungendo persino ad ucciderne alcuni. La sorte che i servi del padrone subiscono, bastonate, morte e lapidazione, è quella dei profeti dell’Antica Alleanza: Uria viene colpito di spada, Geremia viene messo in ceppi, Zaccaria è lapidato.
Da ultimo il padrone manda il proprio figlio sperando che i vignaioli abbiano rispetto di lui. L’arrivo del figlio induce i vignaioli a complottare contro di lui per ucciderlo: la loro ignominia si rivela in tutto il suo orrore. Tra sé dicono che è l’erede e decidono di ucciderlo per entrare essi stessi in possesso dell’eredità che gli spetta. L’intenzione dei vignaioli di appropriarsi l’eredità mira a due fini: che la proprietà passi a loro e che sia esclusa la partecipazione di altri all’eredità. Ciò significa che essi intendono assicurare ad Israele i privilegi salvifici ed escludere da essi i pagani. L’ironia del loro comportamento consiste nel fatto che essi alla fine ottengono proprio quello che volevano evitare (v. 43). Il piano scellerato viene attuato come una vera e propria esecuzione capitale, da compiersi davanti alle mura della città.
La nostra parabola si chiude con una domanda da parte di Gesù, lasciando ai suoi avversari il compito di trarre essi stessi la conclusione. I gerarchi interpellati mediante la parabola sono ora invitati a dire che cosa farà il proprietario della vigna. La venuta del padrone accenna ad un’azione di giudizio terribile, che Matteo può aver visto realizzato nella distruzione di Gerusalemme. La vigna verrà consegnata ad altri vignaioli con l’attesa che la si faccia fruttificare.
La parabola mette in piena luce la crisi di Israele: Dio premurosamente e incessantemente gli aveva inviato i suoi servitori, i profeti: eppure essi non avevano ascoltato. In ultimo non ascoltano neppure suo figlio! Tuttavia il piano di Dio non subirà arresti per il comportamento dei vignaioli omicidi: il figlio ucciso non resterà a lungo nella morte, perché Dio lo risusciterà. La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra angolare. Croce e risurrezione di Gesù marcano una svolta nella storia della salvezza. “Perciò, vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare” (v. 43). Introdotta con solennità e descritta come azione divina, tale svolta avviene nel passaggio del regno di Dio ad un altro popolo.
Matteo dà tanta importanza all’idea di un nuovo popolo messianico suscitato da Dio. La vigna sarà data ad un popolo nuovo che dovrà produrre i frutti che Dio si attendeva, e che Israele non aveva dato. Per il nuovo popolo ciò significa corrispondere alla volontà di Dio quale è stata annunciata da Gesù, soprattutto nel discorso della Montagna: per l’evangelista ciò significa compiere la giustizia e una giustizia superiore. Il nuovo popolo comprenderà i Giudei e i pagani che sono giunti a credere nel Vangelo del Regno. Che questo popolo porti i suoi frutti, i frutti del Regno, va inteso in senso condizionale, non come espressione di sicurezza di sé. Anch’esso a sua volta cammina verso il giudizio divino definitivo, ancora a venire.
Temi caratteristici di Matteo
Richiamiamo l’attenzione sull’idea di “portare frutti”: il nuovo popolo farà fruttificare la vigna, perché Dio non deve essere deluso una seconda volta. Si tratta di “fare” non tanto di “dire”, riguarda l’azione animata dalla carità. C’è un termine preciso entro il quale è necessaria la consegna dei frutti. Le opere di carità, presentate dettagliatamente nel discorso sull’ultimo giudizio, sono i frutti di cui si parla nella parabola. Non produrre questi frutti è l’espressione di una disobbedienza interiore nei confronti di Dio. La vigna sarà presa e data ad altri: la vera punizione è la perdita, da parte di Israele, della sua vocazione di fronte a Dio, cioè di popolo eletto. Anche la chiesa non è esente da questa perdita di nuovo popolo, qualora anch’essa non consegnerà i frutti che Dio si aspetta da ognuno di noi.
Bibliografia consultata: Trilling, 1976; Gnilka, 1990.