“Giovanni gli disse: Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva” (v. 38). I discepoli hanno respinto l’uomo con la motivazione “perché non segue noi”. Il verbo “seguire” all’indicativo presente significa che la posizione di quell’ignoto esorcista non è cambiata, benché sia venuto a contatto con i veri discepoli di Gesù. Si parla così di un problema chiave della comunità: l’atteggiamento da assumere verso i compagni di viaggio che non si sono ancora decisi a seguire Gesù.
Mentre i discepoli pongono limiti in maniera rigorosa, Gesù mostra una tolleranza sorprendente. Educa i discepoli a una “apertura” con l’indicazione precisa: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che possa fare un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me” (v. 39). Con una motivazione pragmatica, che rispecchia la sua mentalità e lo stile di fondo del suo agire, Gesù vieta di “continuare a proibire”. La prospettiva di Gesù è di apertura: egli vuole guadagnare seguaci e sa che arriveranno; la comunità dei discepoli, invece, sta in posizione di difesa. La risposta di Gesù è la frase chiave di tutto l’episodio e viene chiarita dall’evangelista con un detto sapienziale: “Chi non è contro di noi è per noi” (v. 40).
Tale affermazione può essere intesa come parola con valore di regola della tolleranza ecclesiale, in cui i confini sono tracciati con più dolcezza. Insieme alla promessa, che vale per chiunque porge un bicchiere d’acqua ai suoi discepoli, e alla storia dell’esorcista estraneo, essa diventa un esempio anche per quei simpatizzanti che si trovano ancora fuori della cerchia dei seguaci, arrivando a costituire un detto complessivo di orientamento generale per tutti: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa” (v. 41). Il sorso d’acqua è solo un segno, però già tale servizio è sotto la promessa solenne di una ricompensa sicura: esso troverà il proprio riconoscimento nel giudizio finale: “ero assetato e mi avete dato da bere” (Mt. 25, 35).
Questo gruppo di detti è unificato nel suo insieme dal tema del “dare scandalo”. Il primo detto (v. 42) pensa alla seduzione proveniente dall’esterno, che viene posta sotto una minaccia spaventosa di punizione. La successiva sentenza tripartita riflette, prendendo le mosse dalle membra umane esterne (mano, piede, occhio), sulla tentazione che viene dall’interno della persona, che rende necessario un rifiuto radicale e coerente. Non si parla della tentazione da parte di altri, ma della propria.
“Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare” (v. 42). Con l’aggettivo “i piccoli”, si intendono coloro che credono, quei cristiani che non sono ancora stabili, sono i fragili della comunità. Lo scandalo viene dall’interno della comunità, cioè da parte di coloro che credono in Gesù e non dagli increduli. La parola “dare scandalo” copre differenti significati: essere di ostacolo alla fede dei “piccoli”.
Il gruppo tripartito degli altri tre detti formano un’unità sul significato che può sorgere dalla concupiscenza. La triplice ripetizione (“se ti scandalizza…meglio sarebbe per te”), conferisce alla richiesta la perentorietà di una risoluzione radicale da parte della persona. Le immagini iperboliche e drastiche vogliono scuotere e spingere alla riflessione, portare alla decisione/conversione. Qui non bisogna pensare alle automutilazioni (“Tagliala/o, gettalo via” vv. 43-47): Gesù ritrae delle esagerazioni (iperboli), però a livello etico e spirituale.
E’ da ricordare che nel mondo semitico ciò che è esteriore subentra in rappresentanza di ciò che è interiore: del cuore, del sentimento, della coscienza. La colpa non concerne la mano, il piede, l’occhio. Di conseguenza, non si deve nemmeno procedere contro le membra del corpo, che sono solo trasmettitrici di desideri, sono organi con funzione esecutiva; perciò si tratta di procedere contro la cattiva intenzione, “Tagliare”, cioè interrompere, eliminare, convertire, cambiare. Tali sentenze vogliono scuotere, svegliare e se necessario provocare misure decisive in modo positivo. Il “meglio per te” ripetuto tre volte, parla di “entrare nella vita” piena, “entrare nel regno di Dio”. In contrasto con ciò si parla “dell’andare nel fuoco inestinguibile” o “essere gettato nella Geenna”.
Gesù con le sue esigenze attira l’interesse sul “cuore” come sede della decisione morale e come origine e causa ultima dei pensieri e delle azioni cattive. L’evangelista non è interessato all’antropologia ma all’etica di Gesù e dei credenti. Per Gesù in primo piano vi è l’agire giusto, e la triade dei detti sullo scandalo parla di uno scandalo di genere diverso, non di quello che si riceve da altri, ma sempre quello che nasce dalla propria cupidigia.
La struttura antitetica impiegata da Gesù in due situazioni sottolinea in modo efficace le mete positive e negative di ogni azione umana, che ha un grande valore: ciò che si oppone al regno di Dio e alla vita piena della persona deve essere accantonato o modificato. I duri imperativi di Gesù non insegnano il disprezzo del corpo, perché non sono da prendere alla lettera, sono immagini delineate all’improvviso che vogliono richiamare nella mente una risoluta presa di posizione contro il male. Esse devono preservarci in modo forte dalla tentazione, mentre le promesse devono consolarci nel cammino.
L’invito che Gesù rivolge ai suoi è di mostrarsi esigenti, ma verso sé stessi, non verso gli altri. E perché? Perché Dio è libero e nessuno di noi può pretendere di confinarlo; ha un cuore grande e nessuno può limitarlo ad amare solo alcuni; è Padre di tutti e l’immagine che ha impresso in ogni creatura vale più di qualsiasi etichetta, pur scintillante.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Mazzeo, 2021; Laurita, 2021.
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