Il Buon Pastore ama fino in fondo
Senza di Gesù cadiamo preda di tentatori che non ci portano alla vita, anzi la distruggono
Il capitolo 10 del vangelo di Giovanni, nei primi due versetti, ci presenta i due termini che Gesù usa subito dopo per spiegare la sua persona: “chi non entra per la porta… è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta è pastore delle pecore” (vv. 1-2). L’intero capitolo sviluppa l’immagine della porta e poi quella del pastore, l’immagine scelta per la quarta domenica di Pasqua (Gv. 10, 11-18).
Scegliere il Pastore
Se questa immagine ci riporta più facilmente all’ambito dell’ubbidienza, al seguire il pastore senza deviare per strada, l’indicazione della porta ci ricorda piuttosto i vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) dove si parla della porta larga e della porta stretta. Certamente il discepolato è un ubbidiente atto di ascolto e di sequela del Signore, ma questo atteggiamento chiede la piena azione del credente che deve scegliere il suo pastore. L’immagine della porta dunque ci permette di riconoscere Gesù come una via di libertà di cui abbiamo bisogno, perché senza di lui cadiamo preda di altri tentatori che non ci portano alla vita, anzi la distruggono.
Il pastore della libertà
Approfondendo l’immagine del Buon Pastore, scopriamo che questo personaggio ci porta alla vita piena perché insegna la piena libertà, che è quella di amare fino in fondo, fino a dare la propria vita. Questa è l’azione che permette di configurare il pastore come “kalos”, “bello”. La sua bellezza è nell’essere la persona più libera del mondo, perché, proprio per la sua totale capacità di amare, sa dare tutto e, proprio per questo, ha anche il potere di ricevere di nuovo questa vita.
Questa libertà è il massimo insegnamento che il Signore vuole darci, quello che compie sulla croce, dove insegna a passare per la porta stretta che è il sacrificio di sé perché è solo così che giungiamo all’amore autentico, libero, disinteressato. E l’amore salva secondo l’immagine del chicco di grano che, se rimane solo, marcisce, mentre se muore porta molto frutto.
Bisogna imparare che per salvare la propria vita possiamo solo donarla. Scegliere Gesù come il buon Pastore vuol dire seguirlo sulla strada dell’amore, farci suoi discepoli, ossia persone capaci di dare tutto in piena libertà. Non diamo la vita perché qualcuno ce la toglie, ma la doniamo liberamente. Gli altri sono come pecore, esseri fragili che ci sono stati affidati, e noi abbiamo imparato dal nostro maestro a dare tutto per loro.
Il pastore promesso
E’ questo quanto veniva predetto da Ezechiele 37, il famoso testo dove le ossa inaridite riprendono vita. Da questo brano capiamo anche da dove l’evangelista Giovanni abbia attinto al tema dell’unico gregge e dell’unico pastore. Le promesse antiche evidentemente sottolineavano l’esperienza dell’esilio del popolo di Israele, ma il Vangelo di Giovanni allarga queste promesse facendo in modo che il raduno non sia solo quello degli esiliati ma sia davvero il raduno di tutti, pagani compresi, attratti dall’amore di Dio che si manifesta sulla croce (v. 16).
La croce è la porta stretta che il Maestro per primo ha saputo percorrere, ma la dispersione che ne è seguita è stata solo una breve fase: in quella vicenda di morte, i cristiani hanno saputo vedere l’amore del Pastore per le sue pecore e abbiamo imparato a conoscere quanto il Figlio e il Padre si conoscano e si amino (vv. 17-18).
“Ho altre pecore… anche quelle io devo guidare” (v. 16)
Nella chiesa il buon Pastore prosegue la sua missione universale. La chiesa di Cristo non è più legata a un ovile culturale, a una struttura, ma a una presenza, quella del buon Pastore glorificato, che solo mantiene l’unità del gregge. Nei nostri sforzi verso l’unità non si dovrà mai dimenticare che il fine non è il recinto di questa o quella confessione cristiana, ma l’ascolto della voce dell’unico Pastore, che chiama ciascuno per nome (v. 14).
L’ovile non è un luogo chiuso, ma un cantiere in cui si costruisce la chiesa. Ognuno ha il suo posto in vista della missione comune. Di qui la necessità di una pastorale delle vocazioni e quindi la definizione di compiti diversi e differenti responsabilità. Ognuno di essi è un modo per “dare la propria vita” e per farlo “liberamente”. C’è un solo gregge, quello che ascolta la voce del Pastore.
Chiamati
Non è casuale che nella giornata di preghiera per le vocazioni si legga il passo del vangelo del Buon Pastore: in esso c’è l’essenziale di ogni vocazione, quello di un rapporto intimo con il Cristo. Lo si conosce e ci si sente conosciuti. E’ in questa esperienza che si avverte una chiamata, come un’avventura esaltante, che si può correre affrontando ogni rischio, Gesù sarà sempre accanto a noi. Sentirsi chiamati vuol dire passare da spettatori a protagonisti, investendo le proprie energie per un servizio lieto e fedele. Ecco perché ti dico: solo tu sei il mio pastore, solo tu perché ti prendi cura di me e mi conduci alle sorgenti della vita.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Flori, 2024; Brunello-Laurita: 2024.