La liturgia odierna, IV domenica di Pasqua, ci propone l’identità di Gesù come “buon pastore” (Gv. 10, 11-18). Per comprenderne l’impatto comunicativo, dobbiamo riferirci all’Antico Testamento dove l’icona del pastore ha un ruolo importante. Dio stesso è stato compreso come pastore di Israele, anzi come l’unico autentico pastore. Il servizio del re, del sacerdote e del profeta era concepito come un servizio svolto in nome e con lo stile dell’unico pastore: Jahweh. Purtroppo, come i testi profetici testimoniano, troppo spesso i pastori del popolo hanno dimenticato Dio e la loro vocazione, trasformando il servizio in possesso e la cura in oppressione. Davanti a questa arroganza e mancanza di responsabilità, Dio prende una decisione drastica: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo… andrò in cerca della pecora perduta… le pascerò con giustizia” (Ez. 34, 15-16).
Nel vangelo di Giovanni, i capi dei Giudei sono accusati di non occuparsi del gregge loro affidato, ma di cercare gloria gli uni dagli altri e di utilizzare la conoscenza della Legge non per condurre il popolo a Dio, ma per disprezzarlo. Mentre i giudei insultano e scacciano il cieco guarito dalla sinagoga (cfr. cap. 9), Gesù lo va a cercare per condurlo alla piena rivelazione, alla luce della fede. In questo clima polemico la doppia affermazione, “Io sono il buon pastore” (vv. 11.14), sembra indicare la realizzazione della profezia di Ezechiele. Gesù, il mandato del Padre, assume direttamente la cura del popolo di Dio: è il pastore “buono” perché “autentico”.
Questa immagine, il buon pastore, rivela l’identità di Gesù. All’immagine antico-testamentaria Gesù vi aggiunge quella di dare la propria vita: “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (vv. 11.15.17.18). Alla luce del mistero pasquale, questo elemento diviene il carattere distintivo del pastore: chi non è disposto a dare la vita per il gregge è un mercenario. Infatti, colui che è pagato per compiere un lavoro, non rischia la propria vita per ciò che non gli appartiene. Tra la propria vita e la vita del gregge, sceglie di preservare la propria esistenza: “perché è un mercenario e non gli importa delle pecore” (v. 13). Inoltre, il pastore autentico si riconosce per la cura del gregge, espressa nel testo da una relazione di reciprocità, una relazione intima tra Gesù e i suoi. Ogni pecora ha un nome e risponde immediatamente alla voce del pastore (v. 14), perché lo conosce. Dare la vita ed entrare in una relazione personale, attenta, con le pecore del gregge, è non soltanto il carattere distintivo di Gesù, ma di tutti coloro che vengono inviati come pastori nella sua chiesa.
“Io sono il buon pastore, ‘conosco’ le mie pecore e le mie pecore ‘conoscono’ me, così come il Padre ‘conosce’ me e io ‘conosco’ il Padre, e do la mia vita per le pecore” (vv. 14-15). Gesù conosce i suoi e i suoi lo conoscono, così come egli conosce il Padre ed è conosciuto da lui. Il donare la vita ritrova senso in questa conoscenza, scaturisce dalla relazione con il Padre e con i suoi.
Il verbo “conoscere” è molto importante nel vangelo di Giovanni dove è utilizzato più di 80 volte. Nel linguaggio biblico designa un’esperienza. Israele conosce Dio quando lo percepisce in azione nella propria storia. Parte di questa esperienza è l’assenza di Dio. Come capita talvolta nella nostra esistenza, dobbiamo giungere a un vicolo cieco, per incontrare Dio. Mentre il popolo di Israele si trovava in uno di questi punti di non ritorno, Dio promette un’alleanza nuova, incondizionata. L’esito di questa alleanza è la “conoscenza”: “Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo : “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande” (Ger. 31, 34).
Alla fine del cammino, la conoscenza di Dio
Il vertice del cammino del credente consiste nel giungere alla conoscenza di Dio, a un rapporto di intimità, verità, amicizia; di benevolenza e amore. L’evangelista Giovanni ribadisce che si tratta di un rapporto dinamico.
La prima indicazione è che conoscere significa conoscere il nome: Dio conosce il nostro nome e Dio rivela progressivamente il suo nome. La conoscenza dunque è un cammino progressivo e infinito, perché l’altro è un mistero mai esaurito. Il secondo aspetto è che si conosce camminando insieme: non si conosce a distanza e non si conosce nel possesso dell’altro. La conoscenza non addomestica l’altro, ma dona spazi per divenire se stesso. L’ultimo aspetto è il dono della vita. Conoscere è essere responsabile dell’altro, non vivere da mercenario. Gesù offre la sua persona, la sua amicizia, la sua parola, il suo corpo, il suo sangue gratuitamente. La sua croce costituisce l’ultimo sì in questo movimento d’amore senza condizioni.
“E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare” (v. 16). Gesù sfida ogni chiusura e toglie ogni barriera: l’amore di Dio è un amore inclusivo, universale. Gesù dona la vita perché l’umanità tutta divenga “un solo gregge, un solo pastore” (v. 16).
Il brano evangelico di oggi genera in noi un senso di gratitudine e insieme la responsabilità di essere “pastori”. La cura dell’altro non è una professione ma un’opzione di vita. Donare la vita, tempo, energie per l’altro, soprattutto per i poveri e gli oppressi, condividendo le loro sofferenze e speranze, richiede una scelta quotidiana e il rischio costante di essere malintesi e perseguitati come gli apostoli della prima comunità cristiana e della chiesa di tutti i tempi.
Il capocordata.
Bibliografia consultata: Gatti, 2018.
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