Categorie: Rubriche

Il Buon pastore e il gregge

Il discorso sul buon pastore (Gv. 10, 1-18) rappresenta un genere letterario (un modo per descrivere la realtà) tipico dell’evangelista Giovanni, che si adatta al suo pensiero realistico e simbolico. La realtà rimane sempre in primo piano, e l’immagine le è subordinata. Queste immagini non esigono di essere armonizzate, anzi devono essere esaminate ciascuna in particolare.

Per mantenere le distanze dai farisei “ciechi”, Gesù dà inizio al suo discorso con un contrasto efficace: da una parte il “ladro” e il “predone”, dall’altra il “pastore delle pecore”. La categoria a cui ciascuno appartiene è riconoscibile dalla maniera di entrare nell’ovile, o meglio dalla strada utilizzata per giungere alle pecore. Il pastore utilizza la sola entrata legittima, la porta; il ladro e il predone vi entrano in altro modo. La porta, unico accesso legittimo alle pecore, è custodita dal guardiano, che apre al pastore. Egli viene per fare uscire le proprie pecore, anzi per spingerle fuori dell’ovile. Per assolvere questo dovere, egli le chiama ad una ad una per nome: quindi conosce bene ciascuna delle sue pecore; da parte loro, esse danno ascolto alla voce del pastore, rispondono alla chiamata del padrone. Fuori, il padrone cammina davanti e le pecore lo seguono. Prima si sentivano al sicuro dentro l’ovile, ora si affidano fiduciose alla guida del pastore. Il comportamento delle pecore si fonda sul fatto che esse ne conoscono la voce. Un “estraneo” non lo seguono, anzi fuggono davanti a lui, perché non ne conoscono la voce.

La luminosa figura che si erge al centro della parabola (vv. 1-5) è quella del pastore delle pecore. Esse gli appartengono ed hanno fiducia in lui. Chi è il buon pastore? Chi sono le pecore? Il pastore delle pecore è Gesù stesso il quale, autorizzato dal Padre, è venuto verso le pecore, le chiama, le fa uscire e le precede. Questa interpretazione si adatta bene al contesto immediato: la discussione di Gesù con i farisei. L’episodio del cieco nato, orgogliosamente rigettato dai farisei e allontanato dalla sinagoga, ma che Gesù attira a sé, serve da occasione e da esempio per il discorso sul Buon pastore.

Nei vv. 7-10 il discorso assume una formulazione fuori del comune: Gesù si identifica con “la porta delle pecore” (v. 7). Gesù afferma di essere la porta delle pecore non in senso concreto, ma semplicemente vuole assumerne la funzione. E’ in qualità di pastore delle sue pecore che Gesù esercita le funzioni della porta. Ora, la porta ha due funzioni: si chiude per tenere lontani gli estranei e proteggere la proprietà; si apre per lasciare entrare ed uscire liberamente tutte le persone conosciute. La funzione di chiudere deve dunque riferirsi ai ladri e ai predoni, mentre la funzione di aprire serve all’utilità delle pecore. Poiché Gesù ha detto di essere la porta delle pecore, Egli non deve lasciar entrare altri pastori: sarebbe inutile, poiché è lui l’unico pastore. Con la venuta di Gesù, unico pastore, appare chiaro che tutti quelli che l’hanno preceduto sono stati ladri e predoni. Gesù si interpone tra essi e le sue pecore; come una porta, le protegge e impedisce a chiunque di avvicinarle. Egli penetra nel profondo del cuore delle sue pecore: per questo motivo “le pecore non li hanno ascoltati" (v.8).

Evidentemente, i ladri e i predoni sono entrati nell’ovile, anzi, vi si trovano prima di Gesù, ma non erano passati per l’unica via normale: non erano autorizzati né “inviati da Dio”. Certo, essi parlavano alle pecore, ma parlavano di se stessi e cercavano la propria gloria; la loro dottrina non veniva da Dio. Ecco perché le pecore non li hanno ascoltati. Gesù sta pensando unicamente a coloro che sono venuti, con pretese ingiustificate, per la rovina delle pecore, siano esse guide spirituali del popolo come i farisei o i dottori della legge, oppure capi politici e falsi messia. Il fatto che l’evangelista Giovanni definisca Barabba come un brigante e Giuda come un ladro ci permette qualche considerazione sul carattere degli uomini di cui stiamo parlando: sono egoisti, non rispettano alcuna autorità. Queste sono le caratteristiche degli avversari di Gesù, di quelli che cercano di farlo morire.

La prima espressione “Io sono la porta delle pecore” (v. 7) contiene una sentenza di condanna contro gli avversari di Gesù, “ladri e briganti”; la seconda espressione “Io sono la porta” (v. 9) contiene una promessa generale di salvezza: Gesù distoglie lo sguardo dai suoi avversari per volgerlo su quanti si accostano a lui. Per questi egli è la porta aperta che dà accesso alla salvezza. Entrare, per Gesù significa che bisogna mettersi in contatto con lui per raggiungere la salvezza. In questo stato di salvezza, le pecore troveranno il loro pascolo, cioè potranno saziarsi, “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (v. 10)

Invece, il ladro viene per rubare, uccidere e distruggere: l’ultima espressione esprime una sventura definitiva e si oppone alla vita in abbondanza che Gesù è venuto a portare. Il ladro che è causa di questa rovina e avversario del Signore dispensatore di vita, raffigura indubbiamente Satana stesso e al quale Gesù fa guerra, perché menzognero e padre della menzogna. Gesù, invece, è l’inviato di Dio, venuto a dare in abbondanza “la vita”, la vita divina che non conosce fine. Qui il discorso sul Buon pastore raggiunge il punto cruciale: egli dà la propria vita per le sue pecore, affinché abbiano la vita in abbondanza. Una simile bontà è tipica dell’unico Pastore: egli solo infatti può fare del sacrificio della propria vita un dono di vita per i suoi fedeli. Gesù è il vero Pastore delle sue pecore, perché ha cura di loro e gli sta a cuore la loro sorte: davanti al pericolo non scappa ma rimane  loro vicino. Inoltre, Gesù sacrificando la propria vita si dimostra il Figlio obbediente, che osserva il comando del Padre mediante un’oblazione volontaria. Il sacrificio del Pastore è dunque l’atto che rivela, meglio delle parole, la natura del Signore.

Che dire dei Pastori di oggi, per i quali la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni sacerdotali e religiose è dedicata? Che al nostro gregge non diamo la vita, anzi spesso approfittiamo del nostro ruolo per sfruttare, specie nell’ambito economico, il nostro popolo che Dio ci ha affidato; che non siamo di buon esempio, comportandoci in maniera difforme dal Buon pastore; che non siamo più credibili agli occhi della buona gente che Dio ha messo nelle nostre mani. Siamo diventati i mercenari di questo gregge.

Bibliografia consultata: Kiefer, 1970.

Redazione

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